con il gruppo cinema del collettivo abbiamo rivisto di recente Metropolis di Fritz Lang, del 1927. avevamo già visto diversi film muti nelle settimane precedenti, ma questo è il primo che ha generato riflessioni e discussioni. in parte secondo me perché è il primo film moderno, non così diverso dal cinema di oggi (e su questo scriverò altro a breve), in parte per l’aspetto politico.
non riassumo tutta la trama perché è intricata, ma diciamo che ci sono gli operai che vivono sotto terra e portano avanti un lavoro massacrante e alienante, mentre le classi benestanti vivono sulla superficie dove oziano e se la spassano. succedono un po’ di cose, c’è una rivolta degli operai che però finisce male, ma tutto porta al famoso finale: il mediatore tra le mani (gli operai) e la testa (il padrone) dev’essere il cuore. quindi armonia sociale, il padrone diventa un padrone buono, probabilmente le condizioni degli operai migliorano, l’amore vince su tutto.
il finale, celeberrimo, ha lasciato interdetti alcuni membri del collettivo. perché Metropolis è anche la prima distopia della storia del cinema, e noi siamo abituati che in una distopia, di fronte a un regime autoritario, a una classe oppressa, si reagisce con una bella rivolta. gli operai spaccano tutto, uccidono il padrone, cambiano la società. in Metropolis, che è senza dubbio un capolavoro, non va così (aggiungo, per rendere le cose più complesse, che la sceneggiatrice del film Thea Von Harbou, moglie di Fritz Lang, in seguito divenne una convinta nazista. Metropolis inoltre pare che fosse uno dei film preferiti di Hitler).
a me però questa delusione, questo amaro in bocca che parte del collettivo ha provato di fronte al finale di Metropolis ha fatto riflettere più in generale sulle rivolte, sulle ribellioni. la nostra non era solo una delusione politica, ma una delusione come spettatori. perché come spettatori siamo stati educati che in quella situazione distopica ci sarà sicuramente una rivolta: il plot è quello, sempre. ma la rivolta è diventata appunto un fatto di spettacolo, di rappresentazione, e di merce, ovviamente, essendo il cinema un’industria e i film dei prodotti.
quindi è stata addomesticata.
molte persone si aspettano che ci sia una rivolta nei film e provano molta soddisfazione quando effettivamente si verifica tendenzialmente nel terzo atto, ma non porterebbero mai avanti una rivolta nella vita reale, né sosterrebbero tentativi di rivolta di altre persone. ci piace vedere la resistenza in Hunger Games, ma mai ne faremmo parte in prima persona e probabilmente saremmo pronti a dissociarci dai famosi Metodi Violenti™ dei rivoltosi.
(sia chiaro: sto usando un plurale retorico, in realtà io – e tutto il collettivo – non la pensiamo così, ma è giusto per capirsi)
in pratica la rivolta, cristallizzata nella rappresentazione, è stata addomestica e resa inoffensiva. è una finzione. e quindi va bene: purché resti finta, purché resti rappresentazione, un film, una storia. non è impensabile immaginare un elettore di Trump che si esalta nel vedere la resistenza in Hunger Games ma poi vota e sostiene il suo idolo dai capelli bizzarri. non ci vede nessuna contraddizione, anzi, forse è perfino convinto di portare avanti una forma di resistenza, nonostante Trump sia più simile a Coriolanus Snow, il dittatore del film, e non all’eroina interpretata da Jennifer Lawrence.
senza andare troppo lontano: anche in Italia, anche nei movimenti reali, nella politica di tutti i giorni, vediamo lo stesso schema. la rivolta è una parola che può piacere nei discorsi, nei meme, nei film, negli slogan, ma quando si fa concreta – quando qualcuno occupa, sciopera, blocca, si difende, attacca, si ribella – allora diventa subito “eccessiva”, “ideologica”, “violenta”. fighissima quella rivolta nelle banlieue che ho visto su netflix! cosa, fanno la stessa cosa sotto casa mia? teppisti, vandali, barbari!
(ovviamente parlo della maggior parte delle persone, quindi se non ti riconosci in questa descrizione: ok, non è di te che sto parlando.)
la cultura pop ci ha dato un vaccino contro la rivolta e il capitalismo l’ha assimilata. puoi assistere alla rivolta – recitata da attori miliardari – e forse il tuo cervello è convinto di averne preso parte. è una piccola dose di rivolta in forma di fiction per renderci immuni al desiderio di farla davvero. guardiamo “V per Vendetta”, ci emozioniamo, magari ci compriamo la maschera di Guy Fawkes su Amazon, e poi lunedì siamo in ufficio a ridere dei colleghi che scioperano per il contratto, e se qualcuno ti chiede “dopo andiamo a bruciare una concessionaria Tesla, vuoi venire?” risponderemo “ma sei matto?”.
(sì, è ancora il plurale retorico – anche perché nessuno di noi lavora in un ufficio e abbiamo tutti e tutte una passione per la combustione.)
questa rivolta estetizzata è il modo in cui il sistema si è vaccinato contro la rivolta reale. non la censura: la distribuisce in massa. non la reprime: la vende. e così ci abitua a un mondo in cui la ribellione è prevista, è prevista nei copioni, è prevista nel marketing ed è molto cool. ma solo come rappresentazione. solo se è inoffensiva, se non scardina niente davvero. e noi, anche noi che ci diciamo critici, ci sediamo e guardiamo – magari indignati, magari commossi – ma comunque seduti.
la rivolta vera è inaccettabile. deve disturbare. deve rompere lo schema narrativo, non seguirlo. e infatti, quando succede sul serio, fuori dal cinema, non piace più a nessuno (a meno che non sia molto lontana da noi, in paesi che conosciamo poco, oppure lontana nel tempo, tipo un’insurrezione del 300 raccontata da Barbero: allora l’appoggiamo). ma una rivolta vera, nelle nostre strade, non nei set cinematografici, diventa disordine, terrorismo, devianza, violenza gratuita. non importa quanto siano opprimenti le condizioni: ogni gesto reale di rottura è visto come eccesso. e chi lo compie viene isolato, tradito, represso – anche da quelli che nei film tifano per Katniss di Hunger Games o per Neo di Matrix.
(va precisato poi che raramente al cinema vediamo rivolte riuscite, spesso vince il pessimismo: c’è la rivolta, ma c’è sempre anche l’aspetto negativo – ad esempio in Hunger Games la resistenza appare a un certo punto come troppo violenta e vittima dei vizi dello stesso potere che vorrebbe contrastare)
a peggiorare il quadro già di per sè molto deprimente c’è il fatto che quasi tutte le rivolte che vediamo sullo schermo sono individuali. un eroe. un prescelto. uno speciale. questo serve al racconto, ma serve anche al potere: perché così ci disabitua a pensare la rivolta come un fatto collettivo, organizzato, impegnativo, sperimentale, complesso. la rivolta, nella realtà, può non avere individui come protagonisti, ma moltitudini. un’eccezione di 100 anni fa è la La corazzata Potëmkin, dove i protagonisti non sono individui, ma la massa, la collettività, protagonista di una rivolta.
ma perché rivoltarmi, quando posso guardare un film e avere la sensazione di averlo fatto? il punto è che secondo alcuni il cervello non distingue poi così nettamente tra esperienza reale e rappresentazione. diversi studi neuroscientifici lo confermano: quando assistiamo a un’azione, soprattutto se la viviamo con coinvolgimento emotivo, si attivano nel nostro cervello gli stessi circuiti neuronali di chi quell’azione la sta compiendo davvero. sono i cosiddetti neuroni specchio. è come se stessimo partecipando, anche se siamo fermi sul divano. così, guardare una rivolta sullo schermo, tifare per i ribelli, sentire l’adrenalina salire, ci dà una gratificazione simile a quella di un gesto reale. una piccola scarica di senso, un’illusione di partecipazione. non abbiamo cambiato nulla, ma per qualche minuto abbiamo provato a noi stessi di essere dalla parte giusta. e in fondo basta questo: la rivolta come simulazione, come esperienza immersiva e assolutamente innocua.
il risultato è che la rivolta è pensabile solo se finta. possiamo immaginarla, rappresentarla, persino tifarla, purché resti altrove, in una dimensione separata dalla nostra vita quotidiana. quando è dentro uno schermo, dentro un meme, dentro un libro, diventa accettabile. diventa “narrativa”, “simbolica”, “estetica”. ma nel momento in cui prova a uscire da quei confini e a manifestarsi davvero, in un gesto concreto, allora perde subito tutto il fascino e diventa pericolosa. non è più affascinante, non è più poetica, non è più cool: è solo una rottura dell’ordine, qualcosa da spegnere, qualcosa che sì mette in dubbio lo status quo, ma anche le nostre stesse vite, e forse non ne abbiamo voglia.
il fatto che ci emozioniamo per la rivolta nei film ma ci infastidiamo per quella reale non è un paradosso: è la prova che viviamo in un sistema che ha incapsulato il dissenso dentro la finzione, che l’ha reso decorativo. è il modo in cui il potere si protegge dal cambiamento: non bisogna vietare la rivolta, basta raccontarla, farla diventare un’occasione di intrattenimento, di catarsi.
è proprio questo uno dei meccanismi chiave: la rappresentazione della rivolta permette allo spettatore di scaricare tensione emotiva, rabbia sociale, frustrazione politica, in un ambiente controllato e sicuro, perché finto. una volta vissuta quella rivolta “per procura”, ci si sente alleggeriti, purificati – proprio come succedeva nel teatro tragico greco, dove la catarsi era la funzione fondamentale.
solo che la catarsi non ci porta a riflettere per trasformare la realtà. la sua funzione è quasi opposta: serve a neutralizzare il bisogno di trasformarla. ci fa sentire come se avessimo fatto qualcosa, mentre in realtà non abbiamo mosso un dito. è una valvola di sfogo. ed è perfetta per il sistema: ti lascia sfogare, ma non ti fa agire. guardi la rivolta, piangi, ti emozioni, ti compri la maglietta e poi torni al tuo posto. pronto a consumare il prossimo film, la prossima serie, il prossimo meme.
quindi sì, è una catarsi. ma è una catarsi addomesticata, una catarsi di consumo. una catarsi senza conseguenze.
e allora forse dovremmo domandarci: come si fa a spezzare questo incantesimo? come si rompe la gabbia della rappresentazione, come si esce dal ciclo della finzione che sostituisce l’azione?
forse la risposta non è facile, forse non c’è una risposta univoca. ma forse il primo passo è proprio riconoscere il meccanismo. smascherarlo. capire che quella sensazione di partecipazione è solo un surrogato, che quella scarica di adrenalina è solo un palliativo, che la nostra rabbia – vera, autentica – è stata presa, confezionata e rivenduta. e poi fare uno sforzo collettivo per disimparare la narrazione della rivolta come ce l’hanno insegnata: lineare, eroica, individuale, spettacolare, patinata.
la rivolta è caotica, imperfetta, piena di errori e contraddizioni, di tentativi. e soprattutto è collettiva. fatta da corpi, da voci, da mani. non da eroi solitari e speciali, ma da moltitudini. non da protagonisti, ma da persone. non è scritta, non è prevedibile, non è vendibile. ma proprio per questo è viva.
insomma, non dico che non vada bene trarre ispirazione dai film e dalle storie di resistenza, ma è fondamentale essere consapevoli che si tratta di finzioni che ci consolano senza farci agire.
guardare l’ennesimo film netflix con ribelli che si oppongono al sistema può essere emozionante e catartico, magari anche motivazionale, ma c’è una differenza sostanziale tra questa finzione e la realtà. nonostante questo, per quanto possa apparire contradditorio, penso sia necessario sempre di più un’immaginario di rivolta, non di meno.
ma di film davvero ribelli, non solo per la storia che raccontano, anche per le logiche distributive e produttive. posso davvero credere a una rivolta raccontata da hollywood e netflix? non è semplicemente il capitale che mi trattiene e intrattiene sul divano? ad esempio un film ribelle che rappresenta la ribellione dovrebbe essere gratuito, rifiutare le logiche commerciali, essere disponibile per tutti, anche per chi non ha soldi (se non siete d’accordo non è un problema, tanto lo piratiamo lo stesso).
tornando all’inizio: se il finale di metropolis non ci soddisfa non è per la nostra incredibile sete di giustizia sociale, ma semplicemente per il nostro gusto di spettatori addomesticati da un secolo di cinema che la rivolta la racconta come un mito, un topos, un cliché, non come una possibilità reale. forse allora il problema non è che Metropolis finisce male (secondo i nostri standard). il problema è che ci aspettiamo che la rivolta finisca bene, come nei film. soprattutto che finisca. ma la vera rivolta non è uno spettacolo e non ha un finale: è un processo di trasformazione.
6 risposte su “La rivolta piace solo se è nei film”
secondo me c’entra anche il fatto che la catarflix non è a teatro, ovvero non è un’esperienza psichica condivisa immediatamente tra tutti gli spettatori, non hai vicino uno a cui dire “ma cazzo ma sai che m’è venuta una voglia pazzarella di incendiare una Tesla?” e magari uno che non conosci nella fila davanti si gira e ti dice “oh, anche a me”, poi dai palchi senti gridare “Tesla merda” etc. e alla fine esci da teatro e chissà, una Tesla la bruci; poi il giorno dopo magari molti si pentono, fanno finta che: ma intanto. e invece con la catarflix sei lì da solo con le tue cuffioline e quindi oltre ai neurospecchi si attiva anche quella parte di cervello che dice “sì vabbè brucia la Tesla, tanto chi ti s’incula che sei uno zero, sta roba è nella tua testa e basta, guarda i tuoi vicini: tutti chèti e lieti”. e magari invece anche loro stanno etc. quindi forse un altro passo potrebbe essere più cinema all’aperto a prezzi stracciati, magari preceduto da spettacolini teatrali di dilettanti in rivolta.
bella riflessione, concordo su tutto. ad esempio so che quando hanno restaurato la Corazzata a Bologna l’hanno proiettato in piazza maggiore (credo gratis) e alla fine c’erano migliaia di persone ad applaudire IN PIEDI. non voglio idealizzare troppo quel film, non voglio idealizzare troppo nulla, però insomma, fenomeno interessante. poi ok, non è successo niente, ognuno sarà tornato a casa sua, non lo so, magari sono partite delle connessioni proprio da lì, vai a sapere. il cinema ha delle potenzialità, ma sono del tutto inespresse o addomesticate dal capitale (ma di questo scriverò in un altro post). va detto che anche la lettura è un’esperienza individuale e solitaria, nella maggior parte dei casi. eppure può generare risonanza, imitazione, azione. ci passiamo i libri, cospiriamo, siamo ispirati, facciamo qualcosa. col cinema questa cosa non sta succedendo. il film finisce, si torna a casa. oppure si è già a casa e si va a dormire. c’è gente che ha cambiato vita dopo aver letto un libro, ma quanti dopo aver visto un film? ci sono eh, ma meno.
“c’è gente che ha cambiato vita dopo aver letto un libro, ma quanti dopo aver visto un film?”
a me era successo, o quantomeno, mi aveva riordinato un po’ diverse idee che avevo di già, UDITE UDITE, con uno dei film più spettacolari di tutti i tempi, per l’epoca: Apocalypse Now; tra le altre cose mi aveva fatto aprire gli occhi su guerra, natura e follia umana, pessimismo cosmico, ipocrisie dell’autorità ecc; e poi anche quello aveva un finale decisamente anomalo, niente stragi o battaglie, ma venti minuti di discorso. dopo quel film, che sicuramente ho reinterpretato un po’ a modo mio -probabilmente anche un po’ a cazzo, non avevo neanche 18 anni-, ho confermato l’idea di iscrivermi a medicina (un po’ anche per altre ragioni personali, ma ha contribuito moltissimo), sperando di riuscire ad esercitarla in contesti e Paesi disagiati
grandissimo film apocalypse now. la tua è una bella eccezione. io ad esempio, pur con tutti i film che ho visto, non ho mai avuto un’esperienza simile, mentre l’ho avuta diverse volte con i libri (la prima in assoluto, 17enne, con l’autobiografia di malcolm X).
comunque moltissimo condivisibile tutto quello che hai scritto; purtroppo (lo dico per onor di cronaca e per il gusto dell’assurdo) da parte rossobruna c’è chi scrive cose molto simili, ma con due differenze fondamentali:
1) fare cinema di rivolta/anticonformista/distopico è un GOMBLODDO gestito dalle elite, che addomesticano e anestetizzano lo spettatore per non farlo ribellare (personalmente non ci vedo un complotto così raffinato, ma solo una mera volontà di sfruttare in modo commerciale un sentimento comune di questi tempi incerti);
2) la tesi finale è che L’IRAN E’ UN PARADISO TERRESTRE
ahahah, giuro, è tutto verificabile su “Il fondamentalismo hollywoodista”, libro che ho letto qualche anno fa pensando fosse una critica al cinema-baraccone, E INVECE SORPRESA
Molti spunti di riflessione interessanti. L’idea che la rivolta sia diventata una performance innocua rientra in pieno nell’idea di società dello spettacolo. La rappresentazione prende il posto dell’azione reale. Però concordo sul fatto che questo non vuol dire che non ci sia bisogno di immaginario ribelle, anzi ce ne vuole di più. E in questo capisco certe pagine di meme che riprendono serie del cazzo di Netflix o film super pop per farne simboli ribelli, in una sorta di riappropriazione o di détournement. Ci sta. Però poi la cosa finisce lì. Col meme simpatico da mandare ai compagni.