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Riassunto prima puntata

Anna, dopo averci pensato un po’ su, dice no all’invito del nuovo arrivato Yuri che la voleva come sua partner per l’imminente, grande gara di ballo; si distribuiscono quindi le pettorine numerate e Aleksandrovna riappare in studio con uno splendido abito nero che Dmitrič definisce un “classico vestito da ballo”; fervono i preparativi: si trova non senza qualche difficoltà la partner giusta per l’esigente Ivan e viene trovata nella persona di Elizaveta; fa il suo ingresso il giudice Anatolij Vassilievič che ben presto dà il via alla competizione: si comincia ballando allegramente sulle note della celebre “uva fogarina” e subito Boris viene eliminato, ma la stessa sorte tocca ad Ivan quando deve ballare il Twist: il giudice Anatolij Vassilievič si rende conto della grave responsabilità di questa eliminazione e lo fa mordendosi le mani…ma non può fare altro, tra l’altro Andrej dice di essere contento così…; via con un Foxtrot e il bel Yuri non regge al difficile impatto con uno dei balli più classici; Tango con tanto di casquet per Aleksandrovna e Dmitrič, disco-music anni ’70 e Nikolaj deve lasciare la gara, così come la neocoppia Bazdef e Tatjana dopo un Flamenco; restano così in finale Andrej Grigorievič Lebezjatnikov e Anna e Aleksandrovna e Dmitrič che si affronteranno a colpi di Bachata; quest’ultimo afferma che è un ballo da ballare vicini, ma ci si può anche staccare e fare qualche “figura”, Aleksandrovna aggiunge: – si, qualche brutta figura! – la battuta di Aleksandrovna si rivela profetica e alla fine la spuntano i primi.

Ci si prepara per la seconda manche ma Aleksandrovna non si vuol certo fermare e resta in “ballo”, Dmitrič si presta, fuori gara, a fare da partner a Katerina, formando così una super coppia; si ricomincia a ritmo di House e Fedor viene eliminato; Cha cha cha, Meneito, Salsa si susseguono, il giudice Anatolij Vassilievi chiede sensualità e passione, esce Natalja; via col Rock’n’roll e via pure Nikolaj Bolkonskij; ancora sensualità a ritmo di Tango: Aleksandrovna balla con Yuri tornato in pista e, con un gesto tra i più classici, afferra tra i denti la rosa rossa che lui tiene nel taschino…impagabile! Sonja non ce la fa e si torna agli anni ’70, Vera Ilynichna e Fedor eliminati, Andrej Grigorievič Lebezjatnikov invece non supera la prova Tarantella; ancora una Bachata e un Valzer viennese proposto da Dmitrič; Aleksandrovna viene eliminata ma nell’atto di togliersi la pettorina scopre inavvertitamente le sue generose grazie…, Rostov con grande prontezza di riflessi si avventa su di lei celando il tutto alle telecamere; Aleksandrovna però proprio non ci sta a mollare e continua, parte un Boogie e subito dopo partono (per le terre) anche Aleksandra e Nikolaj! gran capitombolo dei due e il giudice Anatolij Vassilievi ammonisce Nikolaj: – non si lascia cadere la donna! – intanto Aleksandrovna si lancia acrobaticamente su Yuri e poi pensa bene di rimettersi la pettorina a scanso di ulteriori “incidenti”; Nikolaj riceve anche il cartellino rosso e Andrej Grigorievič Lebezjatnikov entra in sostituzione per la sfida finale a ritmo di Salsa, Mambo, Disco e Hip-hop;la spunta l’eccellente Katerina e nella concitazione dei festeggiamenti post gara impazza Vasilij Sergeevič, criticando a destra e a manca ma soprattutto il maestro Dmitrič…; quest’ultimo, nonostante tutto, gli propone ancora di fumare il Calumet della pace con l’ultimo ballo, ma Vasilij chiede e ottiene che Dmitri non scenda in pista, poi va a ballare con Aleksandrovna e nel bel mezzo del ballo Dmitrič gli fa lo scherzo e si mette a ballare a sua volta…, non l’avesse mai fatto! Vasilij Sergeevič si infuria e viene “trattenuto”, il giudice Anatolij Vassilievi commenta: – è peggio di Amici qua! – e allora non resta che un bel ballo di gruppo, tutti insieme, più o meno appassionatamente.

(qui l’originale)

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Su e giù

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Nel frattempo, in un’altra dimensione, Little Tony è…

TONY LITTLE!

proprio così.

non dimostra 70 anni, eh?

speravo anche in un Solo Bobby ma ovviamente ci aveva già pensato l’originale:

che oltretutto ci tiene a precisare che:

e con questa direi che possiamo chiudere la vicenda Facebook.

e Facebook.

in conclusione ricordo a tutti i fan che il compleanno di Solo Bobby è il 18 marzo, quindi il problema sul 17 marzo festa-oppure-no, è presto risolto: facciamo festa il 18 che almeno ha un senso!

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Una banda di idioti

Leggendo le intercettazione tra le donne di Berlusconi c’è un passaggio che mi ha colpito più degli altri: quello dove la Minetti spiega a una sua amica che la Carfagna prima di diventare ministro non ha fatto molta gavetta: giusto un anno, che a quanto pare sembra poco anche a lei.

La cosa mi ha fatto pensare agli scrittori e intellettuali italiani.

C’è questo fenomeno per cui uno scrittore-italiano, dopo aver scritto un solo libro, bello o brutto non importa, ma che sicuramente ha avuto successo, si trasforma rapidamente in intellettuale-italiano, cioè in una guida esperta in qualsiasi campo dell’esperienza umana, punto di riferimento in grado di trattare anche quotidianamente ogni argomento possibile, inquinamento, eutanasia, arte moderna, medio-oriente, baseball, il legno intarsiato e i canoni cancrizzanti di Bach. Cioè il giorno prima sono dei blogger come tutti noi, il giorno dopo sono la reincarnazione di Pasolini.

Ripeto: un solo libro, ed ecco che il nome dello scrittore-intellettuale-italiano si moltiplica su giornali, radio, tv, like su Facebook e anche  in quelle manifestazioni che possiamo definire senza temere di esagerare come la peggiore perversione nella storia dell’umanità, ovvero (so che avete già capito) i “reading”. Il nome dello scrittore diventa come un marchio che si può applicare infinite volte a qualunque argomento.

Caratteristica di questi articoli su-ogni-cosa è l’essere sciatti e banali: temini di terza o quinta elementare, ma nemmeno dei migliori, che ne rivelano la sostanziale mancanza di talento e di umiltà. E si limitassero a questo poco male – “mancanza di talento e di umiltà” riassume molte esistenze, non solo di scrittori – ma parallelamente a questo si verifica anche l’inevitabile e temutissimo fenomeno noto tra gli studiosi come “riflessione sul mestiere dello scrittore”.

Non si scappa.

Un libro: dieci anni di riflessioni sul mestiere dello scrivere. La narrazione. Il bisogno di narrare. La forza delle parole. La lingua di noi scrittori. Come vive lo scrittore. Cosa mangia a colazione lo scrittore. Cosa proviamo noi scrittori davanti a un tramonto. Oggi più che mai si ha bisogno di narrazioni. E altre profondità di solito valide dalla Bibbia in poi.

Un po’ come se io, dopo un pic-nic domenicale in collina con le mie zie – manco in montagna eh – tornassi a casa a scrivere il saggio autobiografico “Diario di uno scalatore”, la mia opera definitiva sull’alpinismo dove spiego a Messner e Bonatti quello che non hanno mai capito sulla montagna.

Questa situazione mi ha ricordato Ignatius Reilly, epico protagonista di “Una banda di idioti”, la straripante opera prima di John Kennedy Toole, uno che tanto per non sbagliare si è suicidato prima che il suo unico libro venisse pubblicato.

Personaggio difficile da descrivere, Ignatius fra le altre cose è anche un dispotico mammone che non ha mai lavorato in vita sua. Ma quando le circostanze della vita lo costringono a fare questa cosa orribile che a tutti noi prima o poi capita di dover fare – lavorare – Ignatius ne ricava l’esperienza necessaria per scrivere un’opera monumentale sull’esperienza del lavoro, i problemi, i dilemmi e il suo senso più profondo. Questo dopo il primo giorno di lavoro della sua vita.

Il fatto è che bisogna essere preparati. Perché qua, grazie a quell’altro noto fenomeno conosciuto tra gli studiosi come “se non fa troppo schifo allora dev’essere per forza un capolavoro”, ti ritrovi in pochissimo tempo da essere uno qualunque a essere un nome sulla copertina di un settimanale e a dover raccontare in un paio di pagine tutto quello che è successo sul pianeta in un anno o se secondo te Dio esiste oppure no.

E a quel punto dovresti tirare fuori le palle e dire: no scusate, signori dei giornali, guardate, io non sono in grado di fare questa cosa qua, non sono all’altezza, dai, forse la cosa ci è sfuggita un po’ di mano, per chi mi avete preso, dopotutto ho scritto un solo libro, anzi un libretto, sono poche pagine, su, non è nemmeno granché, non l’ha letto nemmeno mia madre, insomma, vi ringrazio dell’offerta, ma datemi tempo di crescere. Cosa che, per tutta una serie di ragioni che ora sarebbe lungo e complicato analizzare ( = soldi e vanità), immagino che capiti molto raramente.

Quindi, conscio di essere un invidioso debole e ipocrita pronto a vendersi in cambio di pochi euro, ho pensato che forse è il caso di mettermi avanti con il lavoro e di preparare una delle mie amate liste, ovvero La Lista Di Argomenti Sui Quali Mi Ritengo Molto Preparato, nel caso una mattina mi svegliassi trasformato in scrittore-italiano e, invece di raccontare belle storie, dovessi dire la mia sul Mondo, la Storia e la Vita.

Dopo aver analizzato i campi nei quali mi ritengo più preparato e aver escluso però quelli nei quali esercitano già persone molto più in gamba di me, la lista si è ridotta a un’unica voce, che mi consente quindi di restringere al numero di una anche le potenziali riviste sulle quali potrei riversare impudicamente il mio sapere.

Quindi, così, in chiave ipotetica, sappiate che prima o poi potrebbe apparire sul periodico “Boscaioli oggi” un mio articolo di copertina dal titolo “Come accendere il fuoco quando la legna è umida, una disamina completa – di MP”.

Quando esce vi avviso, così lo condividete su Facebook.

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Ultimo in porta (riciclato)

(come al solito la cartella “bozze” abbonda di perle assolute che per motivi misteriosi non pubblico – o magari sì, poi vediamo – ma faccio un’eccezione per questo raccontino a tema calcistico scritto nel 2006 per excite – altri tempi – autobiografico e simpaticissimo, l’ho recuperato miracolosamente dall’archivio di gmail e non lo leggevo appunto dal 2006 e tutto sommato fa ancora la sua simpatica figura. sì, c’è un clamoroso errore che al tempo tutti mi hanno fatto notare, ma ha un suo perché e quindi l’ho lasciato. e comunque ora e sempre gianfranco zola presidente.)

ULTIMO IN PORTA
Rigori sbagliati, rivoluzione armata e Roberto Baggio in quartiere popolare degli anni 90

Mi viene chiesto di rievocare un ricordo legato a una partita di calcio. Dicono che è come una terapia. Ho pensato, e un ricordo c’è. Naturalmente si tratta di un’esperienza vissuta in prima persona. Le partite vissute da tifoso le ricordo poco, non so se per colpa mia o perché sono finito nella generazione sbagliata. Voi vecchi decrepiti magari vi ricordate Maradona che fa gol di mano oppure Italia Germania 9 a 7 mentre io riesco a ricordare solo rigori sbagliati (da Baggio a Di Biagio) ed espulsioni ingiuste che quasi mi portarono al suicidio (cfr. Gianfranco Zola, l’unico calciatore degno di nota degli ultimi trecento anni, ingiustamente espulso da un arbitro infame durante Italia-Nigeria, Coppa del Mondo 1994: il mio Undici Settembre). Ma la partita che io ricordo meglio è stata giocata in un quartiere popolare di una piccola città in qualche punto del tempo, diciamo nella seconda metà degli anni 90 (…per cui Baggio aveva già sbagliato quel rigore ed eravamo già tutti entrati in un mondo parallelo. Solo quando si ripeterà la partita e Baggio calcerà la palla che stavolta entrerà in porta invece di partire verso lo spazio, potremmo tornare nel nostro mondo. Ma sarà ancora il nostro mondo? E poi, la palla calciata da Baggio, dopo aver colpito la traversa, dove andò a finire? Colpì qualche pianeta alieno? Ed è vero o no che analizzando la sequenza del rigore fotogramma per fotogramma si vede uno strano essere che sostituisce il pallone di Baggio con un supertele gonfiato a 50 atmosfere? Dov’era Lee Oswald in quel momento? C’entra la CIA? Esco dalla parentesi).

In effetti le cose da approfondire sarebbero molte, ma per ora concentriamoci solo sulla Mia partita. Nel mio quartiere – palazzi grigi, panchine bruciate, ecc. ecc. – c’erano due gruppi diversi, due squadre diverse. Questa divisione rifletteva disuguaglianze economiche ben radicate. Tanto per capirci diciamo che i primi erano i bambini ricchi e gli altri erano quelli poveri. I primi erano tutti figli di gente che stava abbastanza bene, avevano un campo vero con l’erba, palloni fantastici, magliette tutte uguali con tanto di sponsor, reti senza buchi e perfino delle tubature dalle cui estremità usciva acqua. Il secondo gruppo era quello dei poveri disastrati: genitori muratori pescivendoli disoccupati alcolizzati, niente erba, voragini a metà campo, rete immaginaria, magliette tutte diverse comprate alla standa e ovviamente niente docce – anche se c’era una specie di spogliatoio però usato dai tossici per bucarsi.

Io stavo nel mezzo. Non troppo povero ma non abbastanza ricco, genitori non alcolizzati, anzi fortunati dipendenti statali, però con mutui e debiti da far spavento, e sapevo benissimo che sarei stato rifiutato da entrambi i gruppi. Quindi feci quello che avrebbe fatto qualunque dodicenne nella mia situazione: decisi di sfruttare la povertà del secondo gruppo per convincerli a prendermi con loro. Pensavo che dopotutto erano morti di fame e probabilmente sarebbe bastato mostrare un pezzo di pane per convincerli a prendermi nella loro squadra. Oppure, meglio del pane, un pallone. Mio nonno me ne aveva regalato uno nella speranza che il suo nipote biondo preferito diventasse un campione di calcio. Sfortunatamente avevo perso i capelli biondi un po’ di tempo prima in circostanze più o meno misteriose (si trasformarono nell’attuale orribile castano il giorno che venne espulso Zola) e a giocare a calcio ovviamente sono sempre stato una sega. Le mie conoscenze del giuoco amato da tutti si basavano su Holly e Benji, e l’unica cosa che sapevo fare bene era dire “ultimo in porta” prima degli altri. Non era certo un bel curriculum. Ma il regalo di mio nonno era la Soluzione.

Andai a vedere i poveri disastrati che si allenavano e mi accorsi subito che in realtà non giocavano a calcio: era come se dei giocatori di rugby giocassero a cricket con delle ruspe. Violenza inaudita. Scivolate omicide, spallate da rianimazione, amputazioni. Per un fallo da dietro senza palla non ti prendevi neanche un rimprovero. Penso che solo la decapitazione in campo fosse punita con il cartellino giallo. La cosa mi piacque subito. Pensai: a) che avevo scelto la parte giusta, la violenza parte da qua verso là, e io sto qua: olè!; e poi b) l’uso della violenza lo trovavo giustificabile con motivazioni di tipo ideologico: nella mia weltanschauung da dodicenne ribelle cresciuto da genitori pseudosessantottini pensavo che ci trovassimo di fronte a un’ingiustizia sociale, loro ricchi, noi poveri, e che era giusto rovesciare questa infame situazione con ogni mezzo necessario: anche con una gamba tesa a metà campo. Giocavamo a pallone, ma in gioco c’era ben altro. Rovesciare. Con ogni mezzo necessario.

Pensando a questo varcai l’incerta linea bianca che delimitava il campo, naturalmente con il mio fantastico pallone/chiave del successo sottobraccio. Quel giorno non mi ero lavato né pettinato e indossavo i vestiti peggiori trovati in casa (rubati da una busta che mia madre aveva messo da parte per la Caritas) nel tentativo di farmi accettare. Ma sappiamo tutti che, pur camuffato da Oliver Twist, se non avessi avuto quel pallone sottobraccio dopo tre passi sarei morto. Ma per fortuna ce l’avevo. E mentre mi avvicinavo la squadra intera mi guardava senza mai staccare gli occhi da quella fantastica sfera bianca firmata Adidas. Palloni così li avevano solo rubati. Ma questo potevano usarlo quanto volevano in cambio della mia amicizia e ovviamente di una mia presenza in campo sicura per le prossime duemila partite. Queste erano le mie condizioni. I pezzenti acconsentirono, pur non nascondendo una smorfia di disprezzo per la parola amicizia. Iniziai ad allenarmi con loro ogni pomeriggio e grazie a mio nonno e alla multinazionale Adidas diventai loro amico. Scoprii che per quanto violenti ignoranti puzzolenti e vestiti male, una volta conosciuti erano molto più simpatici di quelli dell’altro gruppo. Ed erano anche più bravi a ruttare.

C’era un piccoletto molto bravo che tutti nel quartiere chiamavano Zola (forse perché era piccoletto) e si diceva che sicuramente sarebbe finito in una grande squadra – ed effettivamente qualche anno dopo sparì del tutto, molti dissero che andò nelle giovanili del Cagliari, ma io purtroppo scoprii l’orrenda verità: era andato in un altro paese a lavorare come manovale (ah, Baggio Baggio, quante cose sarebbero andate diversamente se non avessi sbagliato quel rigore…). Poi c’era il megafreak, uno storpio addirittura più magro di me con i capelli grigi e gli occhiali rubati al padre morto l’anno prima (lui diceva: mio padre è partito a lavorare fuori. In realtà il padre era un noto alcolizzato del quartiere che tutti chiamavano il Merda ed era morto di cirrosi epatica. Tutto quello che gli restava di lui era il soprannome e quegli occhiali schifosi). Nonostante il figlio del Merda fosse un vero freak sfigato come non se ne fanno più, non mi era molto simpatico. Lo odiavo quando si faceva maltrattare fino allo sfinimento – e badate bene, sfinimento non suo, ma degli aguzzini. Lui sarebbe andato avanti così all’infinito. Forse la cosa gli piaceva. Nella mia weltanschauung di dodicenne freudiano cresciuto da genitori pseudointellettuali pensavo che quello era il suo modo di farsi accettare dal gruppo. Qualcuno doveva fare il freak che si prendeva le pallonate in faccia scatenando l’ilarità degli altri. E quel qualcuno era lui. Ma a volte esagerava. Va bene farsi prendere a pallonate in faccia, va bene farsi chiamare Merdina (in quel caso non era colpa sua: era comunque figlio di suo padre), va bene farsi dire che la mamma era questo e quest’altro e di notte sotto il ponte faceva questo e quest’altro, ma perché sparire nel bel mezzo della partita e riapparire cinque minuti dopo con un’evidente strisciata di merda nei pantaloncini bianchi dicendo “sono andato a fare una cosa”? (Da quel giorno la frase “sono andato a fare una cosa” è diventata il mio tormentone: ogni volta che mi viene chiesto dov’eri cosa fai dove stai andando mi porti con te rispondo “vado a fare una cosa” pensando a quel super freak di un nerd e ai suoi pantaloncini smerdati. Bei tempi? No.)

Insomma, si era cagato addosso e aveva fatto notare la cosa a tutti gli altri – e come decisero di reagire gli altri? Deriderlo? Troppo facile. Semplicemente lo rincorsero per tutto il campo per ucciderlo. Lui inizialmente tentò una patetica fuga, poi pensò che una buona idea fosse quella di rinchiudersi nello spogliatoio sbarrando la porta. Immagino la scena: arriva sudatissimo, si rifugia all’interno, sbarra la porta e finalmente riprende a respirare: è al sicuro. Di colpo, sente che non è solo. Si gira e vede i più spaventosi tossici del quartiere alle sue spalle: personaggi concepiti solo da Borroughs, corpi da insetti e facce da vampiri che lo guardano e sorridono minacciosi, immaginando di vedere una siringa alta un metro e cinquanta con gli occhiali. Probabilmente quando ore dopo uscì da lì le strisce sui pantaloncini erano diventate due, come quelle Adidas.

Ma non era il merdoso freak quello che odiavo di più. In fondo lui era innocuo, tranne per se stesso. Chi veramente non sopportavo era un arrogante presuntuoso stronzetto che tutti chiamavano Roby. Si chiamava Roberto? Non lo so. Lo chiamavano Roby perché era bravissimo aveva il numero 10 e il codino come Baggio? Ovviamente sì. Lo odiai dal primo istante? Affermativo. Lo odiavo perché era più bravo e più rispettato di me? L’intervistato non sa/non risponde, ma è lecito sospettare che la risposta sia sì. Comunque dal primo momento capii che era lui la fonte dei guai. Avrebbe rovinato il mio ambizioso programma. Che prevedeva: a) farmi includere nel gruppo dei poveri. Fase battezzata “Io avere pallone. Voi fare giocare me”; b) diventare il leader assoluto del gruppo. Loro le braccia, io la mente della rivoluzione armata/partita di pallone; c) vincere la Coppa del Mondo e/o il Pallone d’Oro, o almeno il torneo del quartiere. Ma capì subito che avrei avuto qualche problema. Un problema col codino.

Fin dal primo allenamento decise di umiliarmi in tutti i modi con finte, dribbling, capriole, e mentre cercavo di prendergli la palla mi ripeteva “guarda la palla! Non guardare me, guarda la palla!” cosa che io facevo, ma poi lui mi superava, si girava indietro e agli altri diceva “oh questo non guarda la palla, guarda me! Sarà innamorato!” e giù tutti e ridere. Dovevo fare qualcosa. Non potendolo battere su un leale piano sportivo (NB: lui era bravo, io no), presi in considerazione l’idea di eliminarlo fisicamente. Le pensai tutte: versare acido muriatico nella sua bottiglia, manomettere la sua bici, riempire un pallone di dinamite e poi lanciarglielo sperando che si esibisse in una delle sue solite acrobazie da esibizionista. Poi arrivai alla soluzione più semplice e brutale: l’eliminazione sarebbe avvenuta sul campo da gioco, davanti a tutti, perché tutti vedessero cosa succedeva a chi osava prendersi gioco di me. Un fallo da dietro, una gamba tesa, qualcosa che gli disintegrasse il ginocchio e lo facesse restare in panchina per il resto della sua vita.

Nelle mie notti deliranti disegnavo ossessivamente un pupazzo con fattezze simili alle sue (in pratica: col codino) seduto in sedia a rotelle e sopra ci scrivevo “Ciao! Potevo essere un campione ma siccome ero troppo stronzo sono diventato storpio. Mi piscio sotto e mi devono cambiare il pannolino tre volte al giorno”. Osservavo la mia opera e sghignazzavo, ma allo stesso tempo mi veniva il sospetto che forse ero io che avevo qualcosa che non andava (…e anni dopo ho scoperto che era così. Scrivo questo testo da una casa di cura. Mi lasciano scrivere e fumare, in cambio io non devo urlare di notte e soprattutto non devo aggredire tutti quelli che hanno il codino). In più, avevo un sogno ricorrente.

Il mio sogno ricorrente era che al piccolo Roby esplodesse il cuore senza motivo durante una partita e che la squadra si trovasse senza il suo attaccante migliore proprio a un minuto dalla fine. E ovviamente, c’era un rigore da tirare. A quel punto allenatori giocatori il presidente della repubblica e la stampa sportiva venivano a casa mia e in ginocchio mi chiedevano di intervenire per segnare il gol che regalasse la vittoria alla squadra (il fatto che la panchina straripasse di altri giocatori e che la partita non potesse essere sospesa per andare a cercare un giocatore a casa ovviamente nel mio sogno non lo prendevo minimamente in considerazione). Io inizialmente facevo il prezioso – mah non so ragazzi, veramente avrei tante cose da fare… devo finire questo galeone con i Lego… – poi accettavo, venivo portato sulle spalle dai miei compagni che mi posizionavano nell’area di rigore, e durante il tragitto venivano intonati canti in mio onore. Lo squallido campetto di quartiere si trasformava nel Maracanà e dagli spalti si sentiva urlare solo il mio nome. Negli occhi del portiere avversario vedevo la paura e il terrore: sapeva benissimo che contro di me non poteva niente. Io non prendevo nemmeno la rincorsa. L’arbitro fischiava, io calciavo la palla che passava attraverso il portiere bucandogli la pancia ed entrando in rete. L’arbitro giudicava il gol regolare, i resti del portiere venivano portati via e uniti a quelli del Codino, bruciati insieme e poi, durante una solenne cerimonia, buttati in un cassonetto. Poi di solito mi svegliavo e mia madre mi diceva che dovevo andare a scuola.

Qualche giorno prima della partita andammo a spiare gli allenamenti dei nostri avversari. Sembravamo una squallida parodia delle piccole canaglie. In realtà Roby e gli altri prendevano la cosa molto seriamente: era una vera missione di ricognizione. Conoscere il nemico. Trovare il suo punto debole. Annientarlo. Ma dopo trenta secondi scoprimmo che lì, almeno da lontano, punti deboli non se ne vedevano. Quando arrivammo stavano facendo qualcosa che noi avevamo visto solo in Holly e Benji. A turno calciavano la palla, colpivano la traversa esattamente al centro, prendevano la palla al volo e la tiravano in rete di testa. Uno dopo l’altro così, senza mai sbagliare. Poi si misero a parlare di “schemi” (“Ha detto schermi? Che schermi usano?” “No ha detto scemi!” “Io ho sentito schermi, o forse vermi. Che cazzo hanno in mente?”), cosa che ovviamente sconvolse tutti, visto che noi di vermi, schermi, schemi non ne avevamo mai usato. Prima di andare via Roby e altri due bulli entrarono di nascosto negli spogliatoi, pisciarono dentro le borse, poi uscirono e dopo aver bucato qualche ruota di bicicletta, senza alcun motivo diedero un pugno in pancia a Merdina e decisero che la missione finiva lì.

Quel pomeriggio ci allenammo col triplo della solita passione, e ogni volta che calciavamo la palla immaginavamo che fosse la testa di uno degli avversari (ehm… forse non tutti. Diciamo che la mia palla aveva il codino). Ma poi a un certo punto, dopo aver confabulato a lungo, Roby e il piccolo Zola, leader riconosciuti in quanto unici giocatori in grado di giocare a calcio senza per forza uccidere, decisero che durante la partita non avremmo dovuto usare la violenza senza motivo. “E’ quello che si aspettano! Facciamo vedere a quei coglioni che invece sappiamo giocare!”. Non posso dire che la cosa venne accolta con entusiasmo, anzi diciamo che tutti lo guardarono come se avesse appena proposto di mollare tutto, buttare a terra i vestiti e andare a salvare i bambini dell’Africa cantando in coro Alleluia. Insomma, tutti in quella squadra usavano i falli in campo come strumento di rivalsa sociale. In quell’ingiustizia infinita chiamata società tu sei bello e vestito bene, hai i soldi e dei bravi genitori e baci le bocche delle ragazze, che noi vedevamo solo in due dimensioni, ma in campo io ti do calci negli stinchi e gomitate in pancia, stronzo! Perché rinunciare a questo? Perché? Ma Roby era Roby. Aveva il numero dieci, un inspiegabile fascino, era rispettato, era forte, aveva sto cazzo di codino, e insomma alla fine la squadra accettò a malincuore la decisione del suo capitèn. (Ehm… anche qui, forse non tutti. Diciamo che un tipo magrolino che fino a qualche tempo prima aveva i capelli biondi trovò la decisione del capitèn una stronzata senza senso e decise che lui, motivo o non motivo, avrebbe fatto uso di violenza come e quanto voleva. Rovesciare. Sempre. E battere il codino. Con ogni mezzo necessario.)

Finalmente arrivò il grande giorno. Noi contro loro, la partita evento. La nostra occasione di fargliela vedere, a quei porci. E soprattutto la mia occasione di eliminare quello squallido tentativo di emulazione di Roby Baggio. Della partita in realtà non ricordo molto (lo so, in teoria era l’unica cosa che dovevo raccontare, ma evidentemente le medicine che mi danno qui mi giocano brutti scherzi. Tenterò un veloce riassunto). Primo tempo senza emozioni, zero a zero, Roby ancora vivo. Io quasi, visto che una partita intera non l’avevo mai fatta e l’aria iniziava a mancarmi. Secondo tempo, segna la squadra avversaria. Un ricco coglioncello con i capelli rossi tipo Summer che a calcio manco ci sapeva giocare, non si sa bene come e perché ma era riuscito a metterla dentro. Ingiustizia sociale 1000, nostro morale meno 50. Il portiere rinvia, la palla arriva a me, la tengo meno di un secondo perché mi viene subito paura, la passo e spero che non ritorni più da me. Per fortuna l’azione va avanti, la palla finisce tra i piedi di Roby che la mette dentro. Metà quartiere, tossici compresi, esulta senza pudore. Uno a uno.

A quel punto potevamo anche perdere 150 a 1, ma un gol era stato fatto e quello bastava – almeno a me. Passano dieci minuti. Contropiede. Mezza squadra avversaria che viene contro di me, unico difensore rimasto nella propria area. Mi sembrava di stare in mutande in mezzo a un’autostrada con degli autorimorchi che venivano verso di me a tutta velocità. Capisco che devo fare qualcosa. Mi lancio verso quello con la palla e gliela tolgo dai piedi con elegante & spettacolare abilità. O almeno così pensavo di aver fatto. Mi accorgo che il gioco è fermo, qualcuno mi insulta e l’attaccante che fino a un attimo prima aveva la palla è a terra che si tocca il ginocchio e piange. Fallo. In area. Durante la partita evento. In pratica una tragedia.

Il Codino si fa strada e si piazza davanti a me per insultarmi. Mi spinge, anche. Ma io non reagisco. Mi dicono che sono stato ammonito. I ricchi tirano il rigore e passano in vantaggio per colpa mia, come i miei compagni di squadra mi ricordano ogni cinque secondi. Soprattutto il Codino ci tiene a ricordarmi che è tutta colpa mia che non valgo un cazzo avevamo detto niente falli e io so fare solo quello e mia madre sotto il ponte fa questo e quest’altro. Insulti verso me e mia madre 1000, mio odio 6 milioni. Ma nella mia weltanschauung di dodicenne pacifista cresciuto da genitori pseudoghandiani so che non è giusto reagire a un offesa con un’altra offesa. Ma d’altra parte avevo già visto troppi film con Charles Bronson, e il desiderio di sangue e di ginocchi spaccati si faceva strada. Decido che è il momento. Fanculo la partita, fanculo Ghandi, fanculo tutto. Conta solo la mia vendetta. Devo uccidere Roby Baggio e strappargli il codino e poi ballare sul suo scalpo come un indiano.

Centrocampo, parto a tutto velocità verso il codino, che in quel momento è senza palla. Ho deciso di arrivare in scivolata e schiacciargli la caviglia – uno dei miei falli preferiti. E’ di spalle e non sospetta niente. Ancora non lo sa, ma tra poco non potrà più camminare. A mezzo metro da lui però metto male il piede, cado, sento uno strano crac, il mondo mi crolla addosso, io crollo addosso al mondo, e mi ritrovo a terra con le due squadre intorno che mi guardano per capire se sono ancora vivo. Il Codino è il più preoccupato di tutti, mi ripete in continuazione come stai come stai, poi mi prende in braccio e mi porta fuori dal campo. Mi toglie la scarpa, controlla la caviglia e mi dice di stare tranquillo, peccato perché stavi anche giocando bene, passa tutto, non ti preoccupare. Io piango. Lui mi ripete di non preoccuparmi e commosso mi sussurra “Li batteremo, vedrai”. Mi sembra di stare in Vietnam. Io in realtà piangevo pensando alla mia sconfitta personale, condita con l’atroce umiliazione di essere stato salvato proprio dalla persona che stavo tentando di uccidere. Non era andata come pensavo. Per niente. Da terra vedo Roby rientrare in campo. Come se non bastasse, da lontano mi fa l’occhiolino. Io volto la faccia dall’altra parte, tentando di cancellare quell’orribile visione. Lui – non io – doveva essere a bordocampo con il piede fuori uso. E io dovevo essere in campo a prendere il controllo della situazione e a fare gol di rovesciata da metà campo e ad essere portato in trionfo da tutti e a baciare le bocche delle ragazze in tre dimensioni e ad avere genitori pieni di soldi e un codino e la maglia numero dieci. A terra capisco che il mio egoismo ha rovinato la partita di quei poveri pezzenti. Se perderanno la loro battaglia, sarà tutta colpa mia, che a mia volta ho perso la mia. Singhiozzo. Poi sento urlare “Rigore!”. Mi giro verso il campo, vedo Roby che posiziona la palla e il portiere che lo guarda spaventato: sa che contro di lui non può niente. E’ il rigore decisivo. Prende la rincorsa, tira e…

Beh, a voi decidere se la palla entrò dentro oppure colpì la traversa per poi andare a finire nello spazio profondo. Io, per concludere, vi dico solo che in quel momento, a terra, sul mio viso apparve una smorfia di felice, infinita soddisfazione.

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Nobel: vediamo se ho capito

CINA
– potenza economica
– hanno la pena di morte
– violano i diritti umani
– reprimono il dissenso

USA
– potenza economica
– hanno la pena di morte
– violano i diritti umani
– sono responsabili di alcune guerre in corso

NOBEL PER LA PACE 2010
va a un dissidente cinese

NOBEL PER LA PACE 2009
va al presidente degli USA, barack obama

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Antisemitismo

Ma se un ebreo decide di farsi fare una caricatura viene fuori un disegno antisemita?

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I migliori film del 2011

Anno discreto, perlopiù di remake e/o plagi di film precedenti. Ecco i primi tre:

Vacanze di Natale in ascensore (2011)
Cinepanettone-horror basato sul film americano “Devil”, dove quattro persone si trovavano intrappolate nell’ascensore con il diavolo. In questa nuova versione italiana un tassista romano, un pizzaiolo napoletano, un esperto di marketing milanese e Belen Rodriguez vivono attimi di vero terrore quando, la sera della vigilia di Natale, si rendono conto di essere intrappolati nell’ascensore con Massimo Boldi. Tre dei quattro si suicidano e alla fine restano solo Massimo Boldi e l’esperto di marketing, che tenta di dissanguare il popolare attore comico tagliuzzandolo con il biglietto da visita. Il film si chiude con i soccorritori che, saputo che nell’ascensore sono rimasti vivi solo Boldi e l’esperto di marketing, decidono di lasciarli lì e tornare a casa. Inizialmente era prevista una versione del film in 3D, ma poi è stata ritirata perché alcune scene erano considerate troppo forti per il pubblico.

FRASE DEL FILM: “Ma… Cos’è questo odore?”

The Social Network (2011)
E’ la storia di Vanessa, una giovane e carina designer d’interni milanese. Vanessa ha 560 amici intimi, passa le giornate incontrando persone, partecipando a eventi, parlando al telefono e chiacchierando per ore con centinaia di persone che le raccontano tutto delle loro vite. Ma improvvisamente qualcosa nella sua vita inizia a cambiare. Vanessa capisce di avere troppi amici, non riesce più a dormire, non ne può più di eventi, cene e feste e il giorno del suo compleanno decide di scappare. Si rifugia in una capanna nel bosco, ma anche lì viene raggiunta dagli amici che pensano si tratti di un evento esclusivo. A quel punto Vanessa perde la testa e fa a pezzi i suoi amici usando un’ascia. Nel controverso finale la giovane e carina designer milanese, ricoperta di sangue, usa le interiora dei suoi ex amici per addobbare la capanna e finalmente festeggiare il suo compleanno in santa pace. Verrà arrestata e condannata, ma vincerà un premio speciale dello IED.

FRASE DEL FILM: “Che fai stasera?”

Totò Riina Palm (2011)
Remake basato sul film del 2007 “Irina Palm”, che raccontava la storia di una tranquilla e anziana signora inglese che trova lavoro in un locale sexy come masturbatrice. In questa nuova versione il protagonista è il boss mafioso Totò Riina che, dopo essere scappato dal carcere, si nasconde in Germania sotto falsa identità. Come copertura i suoi fedelissimi gli trovano un lavoro in un locale per soli uomini, ma nessuno ha il coraggio di spiegare al boss esattamente che lavoro deve fare. Alla fine trovano il coraggio e glielo spiegano. Dopo lo sconcerto iniziale il boss si adegua a questa sua nuova vita, convinto di aver finalmente trovato la sua vocazione.

FRASE DEL FILM: “Più veloce, più veloce!”

(Questi i primi tre. Seguiranno poi gli altri.)

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Il Genio Guastatore

Sull’Unione Sarda spesso amano usare un linguaggio da guerra in modo totalmente gratuito, interpretando in chiave violenta fatti apparentemente non violenti. E certe volte il risultato è geniale. Un esempio dal giornale di oggi:

Un altro esempio sempre dal giornale di oggi:

Sembra di leggere le cronache dal fronte, ma in realtà si tratta di trigesimi e giacinti d’acqua. La tragedia è sempre e comunque dietro l’angolo.

Ma la vera notizia del giorno è che quasi tremila pipistrelli sono in arrivo da tutta l’Isola alla grotta di Su Marmuri, dove trascorreranno i tre mesi di letargo, e che resterà chiusa fino a marzo per proteggere il sonno dei mammiferi volanti.

Quindi la considerazione del giorno è che io a volte – non sempre, non spesso, ma solo a volte – vorrei essere un mammifero volante.

p.s.
la sala del cactus ha anche un altro nome.

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L’ha fatto di nuovo

Il signor Night Shyamalan l’ha fatto di nuovo: ha copiato Trascendentale. Dopo la paranoia sugli alberi esce un nuovo film da lui prodotto e scritto dove alcune persone si trovano intrappolate in ascensore con padre pio il diavolo. Eh.

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The Social Network

Ho visto “The social network” di David Fincher. Bello, ben diretto, molto ben scritto. Riesce a far diventare epica una storia teoricamente noiosa. Nella storia mancano due cose, la cui assenza mi ha colpito:

I PUGNI. I nerd infatti non fanno mai a pugni. Un sacco di scene di questo film, normalmente, se si fossero svolte in un altro contesto, un contesto non-nerd, si sarebbero risolte con i pugni, immagino quasi sempre diretti al protagonista: l’infantile, arrogante e arrivista Mark Zuckerberg. Non è un caso e anzi credo sia una scelta voluta, e direi anche ostentata, dello sceneggiatore Aaron Sorkin. Si nota soprattutto in tre scene: una quando il “buono” Eduardo viene deriso e insultato da Justin Timberlake/inventore di Napster, nell’indifferenza quasi autistica dell’ex amico Zuckerberg: il buono si avvicina, prende un bel respiro e a quel punto ti aspetti un bel pugno classico da film americano, e invece no. Non succede niente. In una scena successiva si ripete tutto uguale, ma questa volta il buono Eduardo fa uno scatto improvviso che spaventa Timberlake, però anche questa volta se ne va senza toccarlo (ma dice di “sentirsi un duro”, e invece di spaccare teste spacca un portatile). In un’altra scena ci sono i due gemelli canottieri che, presa coscienza del fatto che il nerd malvagio Zuckerberg ha fottuto la loro idea e li sta tranquillamente prendendo per il culo, pensano semplicemente di fargliela pagare prendendolo a pugni, ma uno dei due si oppone dicendo che “queste cose ad Harvard non si fanno” (risultato: Zuckerberg fonda Facebook e diventa miliardario). Insomma, nel film la violenza fisica è abolita e si manifesta invece in forma di avvocati, diffide, citazioni e ( – qui qualcuno mi ha sparato prima che scrivessi “quant’altro”). Il risultato è che sono uscito dal cinema con la voglia di prendere a pugni qualcuno con i capelli rossi. O Justin Timberlake. Ovviamente non l’ho fatto, ma mi sono applicato nel mio solito esercizio post-cinema. E cioè: come sarebbe stato questo film se tra gli interpreti ci fosse stato Bruce Willis, magari nella parte di Eduardo? Secondo me, molto diverso.

I VECCHI. I nerd sono incapaci di gestire normali relazioni umane, e questo va bene finchè hanno vite tranquille e insignificanti. Ma cosa succede se si lanciano in una mega iniziativa imprenditoriale e diventano potenti ricchi e famosi? Dolore, rancore, vendetta, solitudine, disperazione e pompini nei bagni. La storia è più o meno questa. Durante l’epica ascesa di Zuckerberg si vedono sempre e solo ventenni che prendono decisioni epocali e non c’è mai nessuno sopra i trent’anni, tranne avvocati e commercialisti. Anzi, l’adulto della situazione, che infatti fa da guru per Zuckerberg, è il malefico e un po’ cazzone fondatore di Napster interpretato da Justin Timberlake, di soli 5 anni più grande di lui. Assenti invece padri, madri, zii e nonni dispensatori di consigli saggi e determinanti in punto di morte (assieme ai pugni un altro grande classico del cinema americano). E’ una situazione stile signore delle mosche, però con studenti, nerd e programmatori che diventano miliardari. L’unico padre presente nel film è quello dei due gemelli canottieri ed eterni sconfitti, ma che in questa lotta 2.0 si rivela totalmente inutile, nonostante i suoi soldi, i suoi avvocati e le sue conoscenze. Anche gli scrupoli che i due gemelli si fanno su cosa è giusto o non è giusto fare sembrano cose da vecchi, non importanti se stai costruendo una cosa cool e di successo come Facebook. Non a caso a un certo punto i due raccontano di aver inseguito Zuckerberg nel cortile di Harvard senza riuscire a raggiungerlo. “Poi lui è sparito”. Ma com’è possibile? Due sportivi muscolosi e allenatissimi che si fanno sfuggire un nerd in ciabatte che vive seduto davanti al computer? Anche qui non è un fatto fisico, ma di mentalità: loro vecchi, lui giovane. E l’improbabile sparizione di Zuckerberg sottolinea anche il suo aspetto poco umano e quasi soprannaturale. In questo senso è uno dei migliori mostri con i capelli rossi apparsi nel cinema degli ultimi anni.

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Io non sono qui per sempre ma soltanto per qualche anno! penso io, e di nuovo chino il capo sul guanciale

Mi ha colpito un ritratto della triste vita di Marchionne che egli stesso ha di recente consegnato ai giornali per giustificare lo stipendio di 400 volte superiore a quello di un operaio: sette giorni su sette di lavoro, ottanta sigarette al giorno, due o tre ore di sonno a notte. Questa di dormire poco invece di perdere tempo è una di quelle cose tipiche del machismo da partita IVA, un po’ Gekko di Wall Street, un po’ Berlusconi e Fabrizio Corona. Ho quindi deciso di sperimentare in prima persona un simile stile di vita, saltando però le parti troppo rischiose per la mia salute fragile, per cui niente sigarette e niente lavoro. L’esperimento si è quindi ridotto al tentativo di dormire quattro o cinque ore a notte (due mi sembravano fantascientifiche). E’ andata così: il primo giorno sono andato a letto alle tre e mi sono alzato alle sette del mattino. Quattro ore di sonno. Nelle prime ore mi sentivo euforico, ma poi, poco prima di mezzogiorno, mi sono addormentato davanti alla tv. Mi sono svegliato per il pranzo, ho cucinato e mangiato e subito dopo sono di nuovo crollato in un sonno profondo. Nel pomeriggio sono andato avanti alternando momenti di veglia e momenti di sonno e brevi intervalli in cui riuscivo a comunicare e deambulare. Sono uscito, ho preso aria, ho perfino fatto qualcosa, ma prima delle dieci di sera dormivo di nuovo. La notte ho dormito per quasi dodici ore filate. Il giorno dopo mi sono riposato. Fine dell’esperimento.

***

Non c’è nessuno che stia raccontando la Sardegna attuale. Scrittori ce ne sono pure tanti, ma nessuno di questi racconta la Sardegna attuale, né parlando d’altro – del passato, di loro stessi, di alieni o vermi giganti – né in forma di metafora o che so io. Niente. Il cinema non lo fa, anche se forse potrebbe (vedi Mereu, che stimo). Ma i libri proprio non ci riescono. Gli scrittori ormai da tempo sono chiusi in queste cose folkloristiche da Sardegna magica dove tutti hanno nomi strani tipo Tziu Balliccu, Vrastaldu o Martino, mai uno che si chiami Gianni e faccia cose tipo comprare la bombola del gas e suicidarsi. Che poi alcuni non sono nemmeno male (Niffoi), però non si va mai oltre. Ci ha provato qualche giovane, a raccontare qualcosa di diverso, ma ovviamente con risultati mediocri. Per un attimo ho perfino pensato che avrei trovato qualcosa di interessante nel mondo dei blog: ma figuriamoci. Quindi, appurato che gli ultimi romanzi sardi buoni sono quelli della Deledda, non mi resta che continuare a leggere ogni mattina quel meraviglioso e infinito romanzo in progress firmato da un collettivo di scrittori anonimi che pubblica sotto il nome di “cronaca regionale”. Leggendo quelle pagine viene fuori un’isola di suicidi, disperazione, giovani bulli che tormentano i vecchi, vecchi che si ammazzano tra loro, pescatori di frodo, piantagioni di marijuana, reperti archeologici, disoccupazione, qualità della vita e raccolta differenziata.

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Però, amici scrittori, prima che vi precipitiate a scrivere della realtà, lasciate che io, dall’alto della mia esperienza con il romanzo italiano contemporaneo – cioè dopo aver letto un paio di pagine di un romanzo recente in una libreria del centro commerciale mentre aspettavo che mi facessero la copia delle chiavi – vi indichi qualche linea guida e soprattutto gli errori da evitare. Allora: niente precari, perché hanno veramente rotto i coglioni: preferire tutto il resto della società, con un occhio di riguardo per impiegati statali e artigiani con hobby segreti e imbarazzanti; niente noir, perché ha rotto i coglioni; niente 30enni, perché anche loro hanno rotto i coglioni: rivalutare invece i 40/50/60enni e soprattutto i vecchi; niente difficoltà economiche, se non molto divertenti; niente anoressia, bulimia o stupri in età infantile: per divertirci c’è già internet; niente riflessioni sulla società, se non sbagliate/folli/sconsiderate; restate comunque sul vago, in modo che possa sembrare che vogliate dire qualcosa oppure anche il contrario, chi lo sa; niente supermercati come metafora di qualcosa; niente scene di sesso; niente storie sentimentali omosessuali tipo Ozpetek; ben vengano invece storie frocissime, sporche, divertenti e disperate; non descrivete scene di droga se non l’avete mai presa; niente scena ironica del colloquio di lavoro con la frase “le faremo sapere” che eh eh eh! tutti sappiamo cosa vuol dire: quella scena ha rotto i coglioni; veramente, lasciate perdere quella scena; ma soprattutto MAI e poi MAI una protagonista femminile: MAI; perché, se siete maschi, difficilmente saprete rendere credibile una voce femminile; se invece siete femmine non sapete scrivere, però magari potrete rimediare i complimenti di Bruno Vespa.

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Idea per un remake: sulla scia dell'”Angelo sterminatore” di Bunuel, fare un film su un gruppo di ragazzi che suonano i bonghi e la chitarra in un parco cittadino. Sono tutti studenti: i maschi hanno magliette di gruppi musicali e si fanno le canne, mentre le donne vanno in giro scalze e si fanno le canne. Quando arriva la notte invece di andare via dal parco e tornare a casa restano lì e si addormentano sull’erba. All’alba della mattina dopo sono ancora lì: intrappolati dentro il parco. Non c’è nessun cancello che sbarra la via d’uscita, eppure nessuno di loro riesce a uscire, come se una forza misteriosa li avesse catturati. E da fuori non è che qualcuno si disperi, anzi. La gente va a vedere, ma non può entrare: li osservano disperarsi, accendere il fuoco e chiedere aiuto, mentre lentamente vanno incontro all’inevitabile morte per fame. In realtà nel parco ci sarebbero le anatre del laghetto, ma nessuno di loro ha il coraggio di ucciderle, anche perché la maggior parte sono vegetariani. Muoiono tutti, uno ad uno: gli ultimi suonano un inquietante canto di morte con i bonghi e poi cadono a terra morti. Ecco, se qualche produttore è interessato mi propongo come sceneggiatore, regista e anche interprete per la parte dello scienziato chiamato dalla polizia per risolvere il problema. Ha una sola battuta, arriva e dice: “Non c’è niente da fare, lasciamoli lì. Cementiamo l’area come a Chernobyl, non lasciamo che i bambini assistano alla decomposizione!” e poi va via.

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E’ che ultimamente vivo appartato. Rare uscite, pochi incontri, giusto due parole con i vecchi nella campagna qua intorno, fra cui un ex militare Nato, ora convertito alla coltura delle patate e zucchine, che mi racconta cose atroci come se fossero divertenti e viceversa. Molte delle cose che mi racconta hanno a che fare con gatti, serpenti e armi pesanti. Inizialmente pensavo di disgustarlo e infastidirlo, per via del modo in cui mi guardava, come se mi dovesse dare un colpo di zappa in faccia da un momento all’altro. Ma poi ho capito che forse ha qualche problema agli occhi quando l’ho visto guardare in quel modo rabbioso anche un pomodoro. Mi chiede sempre come mai non addestro il cane, quasi ogni sua storia termina con la domanda retorica: “Tu non hai fatto il militare, vero?” e a volte mi regala frutta e verdura. Per il resto abbondanti dosi di solitudine, libri e serie americane. La maggior parte delle persone che sento parlare ultimamente sono dvd rip e sub ita. Insomma: sto benissimo. Eppure ogni tanto capita che il citofono suoni, se non il mio quello di qualcun altro, il cancello che sbatte, baci e abbracci, il colpetto di clacson della macchina per l’ultimo saluto e insomma la vita reale si affaccia alla porta e scassa il cazzo. In quei giorni immagino nuovi colori, distanze inconcepibili, silenzi assoluti e la fioritura del fitoplacton nel mare di Barents.

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Ecco, in quei giorni mi capita anche di invidiare i sentinelesi. Sono il popolo più isolato della Terra, vivono sull’isola di North Sentinel nell’arcipelago delle Isole Andamane, nel Golfo del Bengala. Nessuno fuori dall’isola parla la loro lingua e nessuno conosce il nome che loro stessi si sono dati. Ogni volta che dalla civiltà arrivano tentativi di contatto i sentinelesi rispondono lanciando frecce e mostrando i genitali, tanto che al momento esiste una legge che vieta a chiunque di avvicinarsi all’isola. Per proteggere loro ma soprattutto gli altri, suppongo. Diciamo che i sentinelesi rappresentano il classico mito del buon selvaggio: in particolare il mito del buon selvaggio che ti spara frecce in culo. Eppure ogni tanto la civiltà ci prova. Negli anni 70 ad esempio ci provò una troupe televisiva. Il piano, elaborato con la collaborazione di acutissimi antropologi, prevedeva di presentarsi con gesti amichevoli e tanti bei doni: noci di cocco, delle pentole, una macchinina di plastica, una bambola e altre idiozie di questo tipo. Gli indigeni naturalmente risposero nell’unico modo possibile, cioè con una raffica di frecce, una delle quali colpì il regista della troupe. L’uomo che aveva scagliato la freccia venne visto ridere fiero di sé e poi andare a sedersi sotto l’ombra di un albero (LOL). Successivamente i sentinelesi hanno ucciso alcune persone, per lo più pescatori avventati. Nel 2004, quando l’isola è stata travolta dallo tsunami, dalla civiltà mandarono i soccorsi per controllare che i sentinelesi fossero ancora vivi. Erano vivi, e risposero puntando l’arco contro l’elicottero: evidentemente non avevano bisogno di aiuto. Nel 2006 poi hanno ucciso dei pescatori che pescavano illegalmente nelle loro acque. L’elicottero inviato a recuperare i corpi anche questa volta venne attaccato da una pioggia di frecce, rendendo impossibile il recupero. Nel 1990 però c’è stato uno dei pochi incontri non finiti in tragedia. E di questo incredibile incontro esiste perfino il video: noi diciamo grazie, Internet.

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In “Memorie dalla casa dei morti”, il romanzo di Fëdor che racconta la sua condanna ai lavori forzati in Siberia – ma più che altro racconta la condanna degli altri detenuti – ho letto una delle cose più schifose mai trovate in un libro e che riporto qui sempre per aiutare gli amici scrittori interessati a tutti gli aspetti della realtà. Realtà che in alcuni casi può effettivamente essere molto disgustosa. In alcuni capitoli delle Memorie Fëdor racconta della sua degenza nell’ospedale della prigione, dove molti detenuti si fanno ricoverare più che altro per dormire almeno qualche giorno su un vero materasso, dato che normalmente dormivano su tavole di legno. In questo ospedale regna la sporcizia e la puzza e soprattutto quest’ultima il buon Fëdor la descrive per molte pagine: l’aria, dice, era talmente malsana che anche l’acqua, dopo qualche ora, diventava imbevibile. Ma a un certo punto, dopo le piaghe, le febbri, le urla e i pidocchi, arriva l’inaspettato e inconcepibile Orrore quando descrive un vecchio ammalato. Questo vecchio passa il giorno a starnutire dentro un fazzoletto di cotone di sua proprietà che poi ripulisce sulla vestaglia fornitagli dall’ospedale: “Sicché tutto il moccio restava attaccato alla veste da camera e il fazzoletto restava soltanto umido. Questo lo fece per tutta una settimana. Questa economia di un oggetto di sua proprietà a danno della veste da camera che apparteneva all’amministrazione, non suscitava nessuna protesta da parte degli ammalati, benché potesse capitare a ciascuno di loro di dover indossare dopo di lui quella stessa veste da camera” (infatti i vestiti non venivano mai lavati, ed erano quindi ricoperti di moccio, piscio, pus e sangue: un tipico caso di malasanità, diremmo noi). Ecco, la vestaglia di moccio. Chi ci aveva mai pensato? Pensateci. Prendetelo come un esercizio: partite da qui. Dalla vestaglia di moccio.

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Pianse tanto quel coniglietto che alla fin si addormentò

Le rare volte che mi capita di andare al centro commerciale ho la sensazione di trovarmi in un upgrade dei quadri di Bosch. Resto abbagliato da quanto possa essere oscena e mostruosa la realtà, e quanto eccessivamente illuminata. Ma soprattutto: perché le guardie dei centri commerciali sono sempre pelate e le tipe delle pulizie invece sono sempre basse? Dev’essere una specie di selezione genetica, come quella immaginata nel Mondo nuovo di Huxley. Probabilmente il dna delle persone viene programmato prima della nascita in base alla loro futura occupazione. Quindi le guardie che rendono meglio sono quelle pelate, mentre le donne delle pulizie più performanti sono quelle basse. Questo però non spiega perché mi capiti spesso di scontrarmi con un signore con i baffi nello scomparto del cibo per animali. Sempre lo stesso. Sempre lì. Sempre con i baffi.

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A proposito di animali, questo è un brutto mese per le piccole bestie domestiche. Dopo il gatto, è morto anche il coniglio. Il povero Buster ha passato un pomeriggio intero di agonia nella sua gabbia 120×45 e io con lui, dato che a intervalli regolari andavo a controllare come stava. Ogni volta pensavo che fosse morto, ma di colpo voltava la testa verso di me e mi fissava con i suoi inquietanti occhi rossi, come dire: no, sono ancora vivo. L’ultima volta che sono andato a controllarlo però non si è mosso. Ho aspettato un po’ per sicurezza, immobile, come in quelle scene dei film horror moderni dove ti aspetti che capiti qualcosa all’improvviso, ma non è capitato. Allora  ho preso dei guanti di plastica e una busta per svolgere il funerale. Era già in rigor mortis per cui era rigido, sembrava un pupazzo essiccato, e mi ci è voluto un po’ per infilarlo nella busta. L’ho smaltito nei rifiuti organici, assieme ai resti di un anguria.

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Capita così, che in un periodo privo di reali scosse emotive, anche la morte di un coniglio nano sembra essere un evento significativo, forse proprio perché non ha alcun significato. Da questo punto di vista le morti dei piccoli animali domestici sono le peggiori. Criceti, topi, conigli nani, pesci rossi, persino i porcellini d’India, che mi hanno sempre fatto schifo, queste minuscole bestie hanno vite insignificanti e non sembrano avere un motivo per cui vivere, non solo per loro stessi, ma nemmeno per qualcun altro. Eppure quando muoiono ti dispiace, ti dispiace profondamente, ma soprattutto ti dispiace che abbiano vissuto e che tu non abbia potuto fare niente per evitare nè l’inizio nè la fine di queste piccole e ridicole esistenze. Come capita con alcune persone, ti accorgi che vivevano solo quando muoiono; solo che, a differenza di quanto capita con le persone, provi dispiacere per loro e un po’ ti senti in colpa.

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Ad esempio, l’utente di Yahoo Answers Simply the best, affranta dalla morte del proprio animaletto, ha scritto un disperato messaggio dove si dichiara “in depressione”:

Sono in depressione e morto il mio coniglio…?aiutatemi mi e morto il coniglio e nn posso fare piu senza di lui….per me contava ,molto…potreste accendere una stellina per lui in segno di comprensione verso di me…grazie…nn lo faccio per i punti e se lo pensate a causa di altre persone che scrivono cose del genere per avere punti nn confondetemi cn loro perche sto soffrendo davveroooo…grazie a tutti…

Tralasciando la polemica sui punti, Simply the best trasmette alla comunità il suo intenso dolore, in attesa di parole di conforto e accensioni di stelline in segno di comprensione. Io forse avrei risposto con la ninna nanna del coniglietto, una filastrocca che sembra parlare di maltrattamenti in famiglia. Ma come risposta migliore alla domanda è stata votata questa:

Sembrano due parole forse senza significato ma

mi dispiace.

So quant’è dura la morte di qualcuno di caro, che sia animale o umano.
Solo il tempo lenirà le ferite, ma anche se morto rimarrà sempre nel tuo cuore.

Un abbraccio.

Parole semplici, forse banali, ma con i giusti spazi tra una frase e l’altra, la resa è ottimale: enfasi discreta che suona sincera. Ancora una volta il ritmo è tutto. Ma più che la risposta quello che mi ha colpito è il motivo per cui Simply the best ha votato questa risposta. La spiegazione la dà lei stessa nel commento successivo:

grazie sei stat l’unica che si e soffermata sul mio dolore senza raccontare la propria esperienza…kiss

Hai ragione, Simply the best. Quel che conta è il MIO dolore. Ad esempio, un’immagine molto triste che mi ha accompagnato per alcuni mesi del 2009 è stata la gabbietta di Stewie, il criceto che mia sorella aveva preteso in uno dei suoi frequenti momenti di infantile tirannia. Dopo l’ovvia eppure inaspettata morte di Stewie la sua gabbietta – con la ruota, la boccetta  dell’acqua e insomma tutte le sue ridicole cose – è rimasta per mesi lì dove stava, in uno degli angoli meno frequentati della casa, al sicuro da spiacevoli seppur passeggeri sentimenti di colpa. Ogni volta che passavo guardavo la sua ruota e mi deprimevo. Capitava che appena uscito dalla doccia passassi lì di fronte fischiettando, con indosso l’accappatoio, ma se per caso i miei occhi si posavano su quella che un tempo era la dimora del criceto Stewie allora immediatamente mi deprimevo, smettevo di fischiettare e sospiravo. A un certo punto passavo lì davanti apposta per vedere quella beffarda metafora rappresentata dalla ruota immobile di Stewie, per assaporare un po’ di quella piccola tristezza e controllare se ancora provavo dispiacere. Sono andato avanti così per un po’ ma poi alla fine l’ho buttata nella pattumiera. E’ l’elaborazione del lutto, kiss.

p.s.

Ricordatevi che il 10 sett è la giornata mondiale della prevenzione contro il suicidio. Se notate strani segnali comportamentali provenire dal vostro criceto o coniglio, intervenite immediatamente. Ne parlavano in tv e ho appena sentito un esperto dire “comportamento suicidario”.

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Che poi

Riprendendo in mano questo blog ho dato un’occhiata alle numerosissime bozze, i post non pubblicati, i post cancellati per finta ecc. ecc.. C’è roba triste, roba imbarazzante, sostanzialmente tutte cose che avrei potuto scrivere ieri o che potrei scrivere domani. Ma soprattutto ce n’è uno che ha per titolo “Masturbarsi con il Parkinson”: nient’altro, solo il titolo, niente testo. Boh, non ricordo niente.

Ah poi c’è questa buffo comunicato:

non sono morto, è solo che non sono mai tanto lucido da scrivere parole sensate, né ho quel grado di follia necessaria a scrivere cose belle. in definitiva, non ho nulla da dire e nessuno a cui dirlo. in alcuni casi mi accorgo di risultare sgradevole alle persone che incontro, mentre normalmente sono solo indifferenti. a parte quello col mio gatto, non ho rapporti che funzionano. non faccio soldi, non c’è nulla che mi dia veramente piacere e sono vestito quasi sempre allo stesso modo. d’altra parte non ho voglia di imparare la vita normale, anche perché sudare per arrivare secondo mi sembra stupido. penso che l’unica cosa che mi resti da fare sia darmi alla vita criminale. così se la mia vita farà schifo e io sarò un escluso della società, almeno sarà perché io ho deciso così e non perché un’oscura maledizione mi ha precluso una vita pacifica e i miei momenti di gioia che non arrivano mai. i bei tempi stanno arrivando, certo che se la prendono comoda, diceva quello. ecco. io nell’attesa mi do al crimine.

(Alla fine non mi sono dato al crimine ma peggio: mi son messo a lavorare. E poi il gatto non c’è più. In pratica sto sudando per arrivare secondo, e non ho più nemmeno il gatto! IL GATTO!)

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Ma galleggiare in questo modo non era una soluzione

Se qualcuno mi facesse la domanda “Qual’è il tuo racconto preferito?”, cosa che non capiterà mai, perché la gente non mi fa mai domande di questo tipo e quindi mi tocca farmele da solo (e comunque parlo veramente con poche persone e di queste poche una metà non è interessata alle mie risposte mentre per quanto riguarda l’altra metà sono io che non sono interessato alle loro domande; ma diciamo che ragioniamo per assurdo), prima gli farei notare che “qual è” si scrive senza l’apostrofo, così, giusto per fare lo stronzo gratis, e poi risponderei che il mio racconto preferito è “Il crampo” di Gao XingJian. E’ un raccontino breve e semplice semplice, come ti aspetti da un cinese che ha vinto il Nobel, ma all’altezza della semplice complessità di Hemingway e la complessa semplicità di Joyce. Breve e potente, simbolico ed evocativo, dentro c’è tutto e soprattutto ci sono io.

Il fatto è che io leggo sempre il giornale. E mi piace molto leggere le notizie degli annegamenti, che sembrano tutti uguali e invece sono tutti diversi.

Quest’anno diverse persone sono affogate lungo le coste dell’isola e ogni volta che leggevo la notizia di un annegamento – e ogni volta che facevo il bagno in mare rischiando a mia volta di affogare – pensavo che quello poteva essere io, e mi veniva in mente questo racconto di Gao XingJian letto molti anni fa.

Mi è capitato molte volte di superare quel limite invisibile, quando guardi la costa che si allontana e pensi che forse non ce la fai a tornare indietro, e ovviamente questo si presta a molte facili metafore. Anzi, dato che ci siamo: mi è capitato anche di pensare che quel limite l’ho superato e che quello che è tornato a riva non ero più io. Ma anche se fosse: con chi parlarne? E’ difficile spiegare con le parole cos’è un crampo a una persona che non ne ha mai avuto uno.

Ecco, in questo racconto è descritto alla perfezione, con le parole, tutto questo e molto altro. E soprattutto la solitudine.