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Horror Evaqu

Notevole installazione involontaria che gioca, come da sempre fa l’arte, sul concetto di pieno e di vuoto. Già si parla, nei corridoi del M.A.I., di corrente del riempitismo. Natura abhorret a vacuo, diceva quello, ma osservando questo raccoglitore di medicinali scaduti ci viene in mente prima di tutto la famosa storia zen dell’allievo che va a trovare il maestro. La conosciamo tutti, ma la ricordiamo comunque: l’allievo va a trovare il maestro zen, il maestro gli offre del tè e lo versa nella tazza fino a farla traboccare, provocando lo sconcerto dell’ingenuo allievo, per poi concludere (più o meno; andiamo a memoria): ecco, tu sei come questa tazza, e ho detto tutto! Ma prima di addentrarci nell’analisi dell’opera osserviamola e descriviamola: il contenitore è pieno al suo interno, ma questi apparenti limiti fisici non hanno impedito agli anonimi artisti – presumiamo si tratti di opera collettiva – di riempire il contenitore al di fuori. Dunque contenuto e contenitore non esistono più, è come voler ostinatamente colorare “fuori dai contorni”, contrariamente a quanto c’è sempre stato insegnato. Il risultato è una riflessione provocatoria nei confronti dell’Autorità, ma anche di quei preconcetti che portiamo dentro di noi, dell’Autorità che vive e vigila dentro ciascuno di noi. Un primo cartello sul muro avvertiva “contenitore pieno, non lasciare più sacchetti!”, ma non è servito a niente: enigmatici, provocatori e silenziosi proprio come i maestri zen, gli anonimi riempitori (o riempitisti, in letteratura non è ancora chiaro come si debbano appellare), probabilmente approfittando dell’oscurità notturna, hanno continuato a portare medicinali scaduti in questo totem farmaceutico. Qui, qualche giorno dopo, è stato appeso il secondo cartello, stavolta più vicino agli occhi di chi si avvicina all’installazione, con la scritta di colore rosso maestrina/rabbia/allarme: “BASTA, contenitore PIENO”. Inutile dire che ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e involontaria, dunque al secondo avvertimento è seguita un’ulteriore aggiunta di farmaci scaduti, e pare che il fenomeno sia tuttora in corso. Perché non c’è limite, non c’è confine, sky is the limit, ma nemmeno: anche lo spazio profondo potrebbe essere riempito di medicinali scaduti. Una volta che l’Autorità stabilisce un limite – le dimensioni del raccoglitore – l’Artista è obbligato a superarlo, possibilmente in maniera esponenziale, aumentando il volume di questo blob di tachipirine e antibiotici senza fine, inglobando financo il mondo intero. In questo senso possiamo dire che “la via è vuota: nonostante l’uso, non si riempie mai”, ma anche,  con un’inevitabile calembour, che “la vita è vuota: nonostante l’uso, non si riempie mai”. Ecco perché non c’è una cura per la malattia: perché la prima è finita, limitata, mentre la seconda è infinita e in espansione. I riempitisti ci ricordano questo.

Contenitore pieno, installazione, 2017, vista a Forcoli (PI)

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La fotografia

(recuperando bozze)

Il sole era alto, era quasi ora di pranzo, ma lui non avrebbe mangiato prima del pomeriggio, quando sarebbe tornato all’ovile. Si era dimenticato di portarsi da mangiare e, anche se ora aveva fame, ormai non poteva fare altro che aspettare. Le pecore brucavano l’erba intorno a lui e per un attimo immaginò di fare la stessa cosa. Ma odiava mangiare l’insalata, figurarsi l’erba. Per fortuna aveva dell’acqua, almeno quella. Il vecchio di certo non sarebbe passato a controllare come stava. Si faceva vedere raramente. Nell’ultimo mese però era passato diverse volte, forse perché gli doveva due paghe arretrate e voleva controllare che lui per vendetta non rubasse qualcosa. Ma c’era poco da rubare, solo le pecore. Nella catapecchia dove dormiva, non lontano dal campo dove pascolava le pecore, c’erano soltanto una branda con un materasso sottile sottile, delle bottiglie d’acqua, un pentolino, qualche attrezzo da cucina, un fornello a gas e una torcia per la notte. Ci fosse stato altro, allora sì che l’avrebbe rubato.

L’ultima volta, due giorni prima, il vecchio era venuto che era quasi buio. Aveva visto i fari della macchina da lontano, poi l’aveva visto scendere da solo con una borsa in mano. Era molto vecchio, più vecchio di suo zio, forse aveva settant’anni. Avrebbe potuto colpirlo, rubargli i soldi, rubargli la macchina. Ma il vecchio aveva sempre un fucile nascosto sotto il sedile. Lo sapeva perché gliel’aveva fatto vedere lui. “Non si sa mai cosa può capitare” gli aveva detto ridendo mentre guidava, la prima volta che l’aveva portato in campagna. Lui aveva capito. Era un avvertimento. Lui aveva solo un coltello, ma era più giovane e forte di lui.

“Ti ho portato un cambio di vestiti” aveva detto il vecchio porgendogli la borsa. “Qui tutto bene?”
Si era guardato intorno: a parte l’ovile, non c’era nulla per chilometri, non sapeva nemmeno dov’era. Una volta si era fermato un furgoncino di turisti che gli avevano chiesto delle indicazioni per raggiungere il paese vicino, ma lui non gliele aveva sapute dare. Quelli erano rimasti sorpresi, gli avevano detto che erano certi che il paese fosse molto vicino, gli avevano anche mostrato una cartina. “Ci sono segnate tante strade ma non capiamo in quale siamo” avevano detto. Lui aveva guardato la cartina, ma non aveva riconosciuto nessuna strada. Aveva ripetuto “Non so” ed era tornato dentro, all’ombra.

“E manco mi dici grazie?” aveva detto il vecchio mentre lui prendeva la borsa. “C’è anche pane, le sigarette e un po’ di peperoni che ha fatto mia moglie…”
“E i soldi?” gli aveva chiesto lui.
“Ohi, ancora! Ti ho detto di aspettare qualche giorno, tu intanto lavora, poi i soldi arrivano. Che fretta hai? Dov’è che vuoi andare?”
Voleva andare al paese, qualche volta. Diciamo almeno due volte al mese. Voleva lavarsi come si deve, entrare in un bar e bere birra, giocare alle macchinette, fare un giro, magari telefonare a suo cugino. Aveva finito il credito sul cellulare da qualche giorno, aveva chiesto al vecchio di comprargli una ricarica ma quello se ne dimenticava sempre. “Oh, hai ragione” gli aveva detto. “Ascolta, la ricarica te la offro io, te la compro domani. Anzi no, domani non posso che devo andare a fare una cosa… Comunque te la compro, tu stattene buono.”

A conti fatti, gli doveva mille e trecento euro. E ogni giorno rimandava. Si sentiva in trappola, come abbandonato in quel posto di merda dove non vedeva mai nessuno, solo pecore e cani. A volte fumava una sigaretta con qualche altro pastore, ma per la maggior parte del tempo era solo. Non poteva scappare, almeno non finché non riusciva a recuperare le paghe arretrate.

Il vecchio era andato via e quella notte, dopo aver mangiato pane e peperoni e fumato un paio di sigarette, aveva dormito fino all’alba, quando si doveva alzare per fare uscire le pecore. Il lavoro non era difficile, solo molto noioso. Il vecchio gli aveva dato una radiolina da portarsi in giro per non annoiarsi, ma si era rotta subito. Aveva provato a cambiare le batterie mettendo quelle della torcia, ma non funzionava lo stesso, era proprio rotta. Passava anche due o tre giorni senza vedere anima viva e senza parlare mai. Ogni tanto parlava da solo, oppure insultava le pecore e i cani, che a volte picchiava se lo facevano innervosire. Per il resto erano bravi cani. Piccoli, bianchi, abbaiavano tanto ma non erano cattivi. Certo, anche loro sapevano morsicare.

Una notte si era sentito male, forse per qualcosa che aveva mangiato. Secondo lui era l’acqua che dopo un po’ diventava cattiva. Quando apriva le bottiglie di plastica sentiva puzza di marcio, e una notte gli era venuto un forte mal di pancia. Era corso fuori, dietro la capanna, dove si era svuotato completamente. O almeno così pensava. Ma era corso fuori altre quattro volte. Sudava freddo, stava malissimo, pensò di morire lì da solo in mezzo al nulla. Nessuno se ne sarebbe accorto per molte ore, il vecchio l’avrebbe trovato morto e allora forse avrebbe chiamato i carabinieri. O forse l’avrebbe buttato nella fossa, come aveva fatto con una pecora e un cane.

“Secondo quelli io dovrei prendere, chiamare, un casino, la solita burocrazia di merda” gli aveva spiegato. “Io metto sempre tutto in questa fossa e chi s’è visto s’è visto, capito?”
Non sapeva cos’era la burocrazia, ma quella notte si era immaginato anche lui in quella fossa, a marcire sotto il sole del giorno dopo con formiche e mosche a mangiargli la lingua e gli occhi. Chissà se suo cugino l’avrebbe saputo.

Allora aveva preso il cellulare per chiamare il vecchio, voleva dirgli che stava male e che aveva bisogno di un dottore. Ma quello non aveva risposto. Alla fine anche quella notte era passata e il giorno dopo stava meglio. Non era morto. Ma si era sentito abbastanza solo da poter morire senza che nessuno lo sapesse, solo i cani e le mosche.

Si sdraiò all’ombra dell’ulivo, poggiando la schiena contro il tronco. Una leggera brezza muoveva i rami sopra di lui e nonostante l’ora si stava bene. Quello era il punto migliore per controllare il gregge, era all’ombra e da lì poteva vedere tutto il campo. Da autunno a primavera era un grande campo di carciofi, ma da maggio in poi le piante si seccavano e lui poteva portarci le pecore.
Aveva gli occhi socchiusi e si stava per addormentare, quando sentì i cani abbaiare. Non abbaiavano mai senza motivo, quindi alzò la testa per guardare.

Il campo era costeggiato da un canale di irrigazione e da una fitta recinzione di canne e rovi. Era impenetrabile, come un muro. Da fuori era impossibile vedere dentro e da dentro era impossibile vedere fuori. C’era solo un’entrata, di solito sbarrata dalla rete di un letto arrugginita, e qualche spiraglio nella vegetazione. I cani abbaiavano verso la strada, una delle tante stradine di campagna dove non passava mai nessuno, solo qualche macchina ogni tanto. Abbaiavano e avanzano, come se seguissero qualcosa che percorreva quella strada. Non era una macchina, andava troppo piano, forse era una bicicletta? Una volta, era mattina presto, aveva visto un vecchio col motorino fermarsi per tagliare delle canne.

Si alzò e si incamminò in quella direzione. Non richiamò i cani, li lasciò abbaiare, prima voleva vedere di cosa si trattava. Aveva quasi attraversato il campo quando vide i cani fermarsi. Qualsiasi cosa stessero seguendo, anche la cosa dall’altra parte delle canne si era fermata. Si avvicinò lentamente, senza fare rumore, e si nascose dietro le pareti del canale di irrigazione. Tra le canne riusciva a vedere la strada, ma non la cosa che la stava percorrendo. Però sentiva. Erano delle risate, voci di ragazzi e ragazze.

Non erano del posto, questo lo capì subito, forse erano dei turisti. Poco dopo li vide arrivare: andavano in bicicletta, di tanto in tanto si fermavano, ridevano e facevano dei suoni con la bocca per richiamare i cani. Si fermarono proprio di fronte a lui, ma non lo notarono perché era ben nascosto dalle canne e guardavano dall’altra parte, dove c’erano more e fichi d’India lungo tutta la strada.
“Dai Fede, fammi una foto con i fichi d’India!”
Tre ragazze e due ragazzi, avevano più o meno la sua età, venticinque anni o poco più. Uno dei ragazzi stava facendo un video con un cellulare, mentre una delle ragazze scattava fotografie con una grossa macchina fotografica nera. Indossavano pantaloncini molto corti, infradito e canottiere. Le ragazze erano molto belle e allegre, una di loro aveva un grosso cappello di paglia.
In quel momento prese la decisione.

Non sarebbe stato difficile: i ragazzi non sembravano dei duri, doveva solo prenderli di sorpresa. Avrebbe afferrato una delle ragazze, le avrebbe messo un braccio intorno al collo e con l’altro avrebbe puntato il coltello minacciando gli altri di ucciderla.
Avrebbe urlato: “Datemi tutto o la uccido!”.
E si sarebbe fatto dare tutto: cellulari, macchina fotografica, soldi. Poi li avrebbe fatti spostare tutti da una parte e col coltello avrebbe bucato le ruote delle biciclette. A quel punto sarebbe scappato via, non gliene fregava niente del gregge. Nessuno si sarebbe accorto di niente, là intorno non c’era anima viva. Si sarebbe potuto fare cinque, seicento euro o forse anche di più. Non poteva sapere quanti soldi avevano quei ragazzi nei portafogli, e non sapeva nemmeno quanto valeva la macchina fotografica. Ma sapeva che i soldi gli servivano. Con quei soldi sarebbe potuto andare in paese, da lì prendere il treno e raggiungere suo cugino nella città, comprarsi dei vestiti, andare a mangiare come si deve. Non ne poteva più della campagna e del vecchio che non lo pagava.
“Perché non raccogliamo le more?” disse uno dei ragazzi assaggiandone una. “Cazzo, sono buonissime. Raccogliamo le more!”
“E poi dove le mettiamo? Quelle macchiano, mica puoi metterle in tasca.”
“Le mettiamo nel cappello della Fede.”
“Non credo proprio, la prossima volta ci portiamo una busta.”
“Ma non ripasseremo mai più in questa strada!”
“Questo è vero…”
“Comunque non saranno le uniche more di tutta l’isola, no?”

Risalirono sulle bici. A quel punto capì che doveva fare in fretta. Anche senza correre sarebbe arrivato prima di loro all’entrata del campo, ma non doveva perdere tempo. Passò attraverso le pecore prendendole a calci per farle spostare velocemente. Tirò fuori il coltello dalla tasca dei pantaloni. L’aveva affilato da poco. Non avrebbe voluto ferire qualcuno, ma l’avrebbe fatto, se fosse stato necessario. Se tutto fosse andato bene non ce ne sarebbe stato bisogno. I ragazzi sarebbe andati via a piedi, la casa più vicina era a quindici minuti, e nel frattempo lui sarebbe scappato, anche se non sapeva bene dove. Ma non era importante: poteva nascondersi da qualche parte per la notte e poi trovare una strada che portasse al paese.

Si avvicinò alla parete di canne e rovi. Poteva sentirli, stavano arrivando. Ogni tanto si fermavano per scattare fotografie e si sentiva qualcuno dire: “Allora? E basta! Andiamo avanti!”.
Pedalavano lentamente e qualcuna delle ragazze restava sempre indietro. Per qualche metro lì segui camminando parallelo a loro, separati solo dalla vegetazione. Accelerò il passo per arrivare all’entrata prima di loro, ma la ragazza con il cappello di paglia si mise a correre sui pedali e lo superò, arrivando all’entrata del campo quando lui era ancora a qualche passo di distanza.
“Noooo!” la sentì urlare. “Ragazzi c’è un gregge di pecore qua, è un posto bellissimo! Venite a vedere!”

Si immobilizzò. Se doveva farlo, doveva farlo ora: poteva prendere la ragazza e minacciarla. Solo che così gli altri sarebbero potuti scappare via. Dovevano essere tutti insieme: o così o niente. Non sapeva cosa fare. Nel frattempo gli altri ragazzi raggiunsero la ragazza con il cappello e si fermarono davanti alla rete che sbarrava l’entrata del campo.
“Bellissimo, guarda quell’ulivo lì! Troppo figo, guarda quante pecorelle…”
“E’ un tipico paesaggio sardo.”
“Molto tipico!”
I cani abbaiavano, ma non facevano paura e i ragazzi li ignoravano. Lui era nascosto dietro un cespuglio, con il coltello in mano. Stava sudando ma non era agitato, non lo era mai.
“Ma se entriamo per fare qualche foto? Secondo me si può, che problema c’è?”
“E se il pastore si incazza?”
“Ma figurati, ci parliamo, chiediamo il permesso. Se non si può pazienza.”
I ragazzi decisero di entrare. Posarono le biciclette a terra, al lato della strada, e scavalcarono la rete arrugginita. A quel punto capì che doveva uscire dal cespuglio, ormai loro erano dentro. Non aveva ancora deciso cosa fare o cosa dire, ma non ebbe il tempo di pensare perché la ragazza con il cappello di paglia, vedendolo, parlò prima di lui. “Ciao!” disse. “Scusa se siamo entrati… Sono tue le pecore? Possiamo fare qualche foto? Ti prego dimmi di sì!”
Gli altri lo salutarono più timidamente mentre si guardavano intorno e cercavano di avvicinare i cani che nel frattempo si erano fatti più docili.

“Va bene” rispose. Il suo viso era inespressivo. Si spostò a un lato come per farli passare, in modo da stare alle loro spalle e poterli controllare. La ragazza gli fece un grande sorriso: “Grazie! No davvero, se disturbiamo le pecore ce ne andiamo” disse. “Diccelo se disturbiamo, vogliamo solo fare qualche foto. Questo posto è una figata.”
“Guarda quest’ulivo” disse uno dei ragazzi. “Cazzo, avrà un secolo, forse anche di più.”
Le ragazze erano tutte snelle e carine. I due ragazzi non erano grossi, uno aveva la barba e gli occhiali, l’altro i capelli lunghi e dei tatuaggi sulle braccia. Se avesse voluto avrebbe potuto prenderli alle spalle, accoltellarli e poi buttarli nella fossa dove il vecchio buttava tutto. Se però fosse passata qualche macchina avrebbe notato le biciclette lungo la strada. E poi le ragazze erano tre: e se fossero scappate in direzioni diverse? Sarebbe stato impossibile rincorrerle tutte.
“Beeeeeee!”
Uno dei ragazzi si mise a quattro zampe davanti a una delle pecore.
“Beeeeeee! Eddai rispondi!”
“E smettila di fare lo scemo, Mauri” disse una delle ragazze. “Così le spaventi e poi magari non fanno il latte. Queste le usate per fare il latte, vero?”
Gli avevano fatto una domanda, ma lui non rispose. Aveva rimesso il coltello in tasca e guardava per terra. Li sentì ridacchiare, forse lo prendevano in giro.
“Ma capisci l’italiano? O parli solo il sardo?” chiese una delle ragazze.
“Ma allora è vero che i sardi sono molto silenziosi…” disse un’altra.
“Non sono sardo” disse.
“E di dove sei?”
“Rumeno.”
“Ah” disse la ragazza con il cappello di paglia. Si guardò intorno come se pensasse a qualcosa da dire e poi gli chiese: “E ti piace questo posto? Ti piace lavorare qui?”
“Sì” rispose lui, perché era la risposta più semplice da dare.
“Diego, fammi una foto con l’ulivo” disse un’altra delle ragazze.
Lui si allontanò, andò in mezzo alle pecore, ne prese una e finse di controllarle una zampa, ma in realtà continuava a guardare i ragazzi. Avevano vestiti buoni, molto puliti, e ridevano a ogni frase. Erano sempre molto allegri, le ragazze sembravano molto felici. Tutte quelle risate lo mettevano a disagio. Notò che la ragazza con il cappello di paglia lo stava osservando e poco dopo si avvicinò da lui.
“Cosa facevi a quella pecora?” chiese.
“Controllavo la zampa” rispose.
“Perché? Cos’ha?”
“Sembrava…” fece un gesto con la mano perché non gli veniva la parola. “Ferita. Ma non è ferita.”
“Come ti chiami?”
La domanda lo prese alla sprovvista. Decise di non dire il suo vero nome.
“Stefan” rispose.
Era il nome di suo cugino.
“Bel nome” disse la ragazza. “Io mi chiamo Federica. Loro sono Stefi, Silvia, Diego e Maurizio”. Gli indicò i ragazzi che in lontananza scherzavano con i cani intorno all’ulivo.
“Siamo in un bed and breakfast qua vicino, siamo usciti per vedere la campagna. Così, per vedere la famosa campagna sarda! E’ molto bello qui. E poi non possiamo stare sempre in spiaggia.”
Non sapeva cos’era un bed and breakfast e non aveva capito nemmeno tutto quello che aveva detto la ragazza, quindi annuì distrattamente e riprese a guardare per terra.
“E’ da molto tempo che sei qui?” chiese lei.
“Da stamattina presto.”
Lei si mise a ridere. “No, intendevo qui nel nostro paese.”
“Un anno.”
“Però parli bene l’italiano. Bravo!”
“Così così” disse lui.
Lei si girò per scattare una foto a una pecora. Aveva un corpo molto bello, ma non gli era piaciuta la sua risata.
“Quante sono?” chiese la ragazza indicando le pecore.
“Centoventi” rispose lui.
“Uh, molte! Cioè, non lo so. Sono molte? Ma non sono tue, vero?”
“No.”
“E gli hai dato dei nomi?”
Non capì la domanda. “Cosa?”
“Alle pecore, hai dato dei nomi alle pecore?”
“No.”
“Fede! Fede!” Gli altri ragazzi la chiamavano. Lei tornò da loro, lui si avvicinò per sentire meglio cosa si dicevano, anche se non riusciva a capire tutto.
“Facciamoci una foto tutti insieme in mezzo alle pecore” disse il ragazzo con i capelli lunghi. “Dai cazzo, fa morire! Poi la mettiamo su Facebook e scriviamo ‘Saluti dalla Sardegna’.”
“Ah ah!”
Gli altri scoppiarono a ridere e dissero che era una bellissima idea.
“Stefan!” disse la ragazza con il cappello di paglia. “Ci puoi fare una foto con le pecore? Scusa eh, poi ti prometto che non ti rompiamo più e ce ne andiamo, giuro!”
“Va bene” disse.
Andarono in mezzo alle pecore, lei gli passò la macchina fotografica e gli spiegò come usarla. Non ne aveva mai usata una prima. Aveva fatto delle foto con il cellulare di suo cugino, qualche volta, ma questa era una vera macchina fotografica, nera, lucida, pesante, con un obiettivo bello grosso e un sacco di tasti.
“Scattane due o tre, poi vediamo come sono venute e nel caso ne facciamo un’altra, ok?” disse la ragazza.
“Va bene” disse lui.
I ragazzi si misero in posa tra le pecore. Non sapeva come tenere la macchina fotografica in mano. Chissà quanto vale, pensò. Guardò nel mirino e schiacciò il tasto come le aveva detto la ragazza.
“Tienilo premuto leggermente, quando senti il bip schiaccia forte!” disse la ragazza.
Le pecore però scappavano, perché i ragazzi non stavano fermi e muovendosi le spaventavano.
“Fermi” disse.
Quando le pecore si calmarono scattò due foto. La ragazza si avvicinò per guardarle e disse che andavano benissimo.
“Stefan, ora sei una fotografo.”
“Bella Stefan, il pastore fotografo!” disse uno dei ragazzi.
Lui restò inespressivo e disse solo “Va bene”.
“Aspetta, aspetta” disse il ragazzo con la barba. “Ora dobbiamo farne una con lui. Scusa è stato così gentile, facciamoci una foto tutti insieme con Stefan. La faccio io, dai.”
“C’è l’autoscatto” rispose la ragazza con il cappello di paglia.
“Dai, figata” disse un’altra delle ragazze.
“Va bene” disse anche questa volta.
Non sapeva cosa dire. Loro parlavano sempre per primi e lui non faceva in tempo a rispondere. E poi erano sempre sorridenti e sembrava che avessero sempre ragione.
Sistemarono la macchina fotografica sopra una pietra, si misero in posa e la ragazza con il cappello arrivò di corsa dicendo “Scatta tra dieci secondi!”.
Lei si mise al suo fianco, mettendo un braccio sopra alle sue spalle.
“Sorridi, Stefan.”
E lui sorrise. Non sorrideva da molto tempo: chissà come verrò nella foto, pensò.
“Fatta” disse la ragazza. Prese la macchina fotografica e tutti la circondarono per vedere com’era venuta la foto. Dissero che era venuta bene. Lui nel frattempo si era allontanato.
“Stefan! Non vuoi vedere la foto?”
“Va bene.”
La ragazza gli mostrò la fotografia nello schermo riparandola con una mano per coprire il riflesso della luce. Sembravano un gruppo di amici, erano tutti abbracciati e sorridenti, come se si conoscessero da molto.
“Beh, almeno non abbiamo le solite foto di spiagge e mare azzurro” disse uno dei ragazzi. “Di quelle ne abbiamo fatto tremila e sono tutte noiose, questa invece è bella.”
“Vere pecore sarde” disse una delle ragazze.
I ragazzi dissero che era ora di andare a mangiare.
Lo salutarono, ringraziandolo per la pazienza. Scavalcarono la rete arrugginita, salirono sulle bici e si allontanarono.
Lui restò per qualche secondo in piedi. Nel campo c’era di nuovo silenzio. Tornò sotto l’ulivo, si coricò per terra, poggiò la schiena e la testa al tronco. Tolse il coltello dalla tasca perché gli dava fastidio e lo poggiò sull’erba. Poi chiuse gli occhi e poco dopo si addormentò.

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Uno studente fuorisede

Interessante opera segnalata ai curatori del MAI dall’amico GD, uomo di scienza ma anche attento osservatore delle più recenti avanguardie artistiche involontarie. In questo caso introduciamo per la prima volta il concetto di fuorisedismo, corrente artistica che appare sovente sui quotidiani a corredo di articoli sull’università, gli affitti, i giovani. Intanto, ecco l’opera, anonima e in bassa qualità come prevede il regolamento del MAI:

La scritta è l’originale scelta dal quotidiano che l’ha pubblicata ed è parte integrante dell’opera, dunque non è da considerarsi semplice didascalia. Segue l’accurata analisi socio-antropologica dell’amico GD, con una nota finale dei curatori del MAI.

Analisi di GD:

Avremmo potuto capire che si tratta di uno studente fuorisede anche senza il titolo (o, addirittura, senza il contesto dell’articolo): arredamento Ikea, lettino singolo che sbatte contro la porta, vasetto da 250g di nutella adibito a portapenne, stampante HP probabilmente in offerta a 49,99 da Mediaworld, cianfrusaglie sparse nelle mensole tranne una matrioska disposta a bella posa (probabilmente un regalo della mamma), stelle fosforescenti adesive di fianco al letto. uno studente che potrebbe benissimo avere 32 anni seduto al PC (non si capisce, ma quasi sicuramente un Acer, anche questo in offerta da Mediaworld).

Questa foto trasmette il più inquietante senso di miseria e disperazione. è come guardare una tomba in un cimitero di guerra: alzi lo sguardo e ce ne sono altre mille identiche, regolarmente disposte e a perdita d’occhio.

Estetica e composizione si richiamano al fuorisedismo, una corrente relativamente stabile sia dal punto di vista geografico sia storico – cambiano magari le forme dei mobili, ma non la sensazione che suscitano; inoltre molte case per fuorisede sono state ristrutturate e arredate per l’ultima volta negli anni ’70.
Altri temi cari al fuorisedismo: la droga, i cani, l’erasmus, il treno, il discount, Bologna, i soldi che ti mandano i tuoi mentre per mantenerti fai il cameriere e sei fuori corso da 2 anni.

Nota finale dei curatori del MAI

Risulta evidente (e altresì commovente) il tentativo di riprodurre la cameretta di casa, quella dove il soggetto ipotizziamo sia nato e vissuto fino a lasciare la propria “sede”. L’opera parla anche di questo, di crescita: il letto e la sedia appaiono perfino sproporzionati se si osservano le spalle grosse di questo bambino troppo cresciuto, e temiamo che la postura gli provocherà presto o tardi problemi alla schiena. Ma proprio questa postura sgraziata fa pensare al concetto di “fuorisede”… dov’è la sua sede? Il soggetto è stato spostato, forse perfino contro la sua volontà. E’ scomodo, di spalle, come a nascondersi. Non sappiamo dov’era, non sappiamo dov’è. Ormai non esiste più una sede adatta a lui. Ma è mai esistita? Non siamo forse tutti fuorisede nel momento in cui compiamo un passo e occupiamo il suolo davanti a noi fino a quel momento libero e condiviso da altre persone? Insomma: tante domande, tutti involontarie, come sempre nella grande arte proposta dal MAI. Anche se da curatori ignoravamo questa corrente artistica ammettiamo che il fuorisedismo è senza dubbio interessante e stimolante sia a livello antropologico (come segnala l’amico GD) sia a livello esistenziale, giacché pone interrogativi profondi che, per vivere una vita serena e tranquilla, sarebbe buona norma evitare; ma l’arte è anche questo: essere trafitti da domande che avremmo voluto non sentire.

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Scopare il vento

Secondo me una delle cose più belle che si possono vedere a occhi aperti è quando gli uccelli fanno il cosiddetto “spirito santo” cioè quella posizione tipica dei rapaci in cui restano quasi immobili nell’aria anche per diversi minuti. Trovo molto bello anche il nome che si è dato al comportamento in italiano, mentre ho scoperto che in sardo si dice “coddabentu”, che sarebbe “scopavento/fottivento”. Il riferimento è all’idea che in quel momento l’uccello (con l’ovvia ambiguità del termine) si starebbe “scopando il vento”, che forse è meno bello e un po’ volgare, ma in fondo altrettanto poetico. Che poi ci sono due modi di fare lo spirito santo, con vento e senza vento, come spiegato qui http://www.ebnitalia.it/QB/QB007/terminologia.htm Dunque è possibile scopare il vento anche senza vento, ma si fa più fatica.

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Nuovi audiovisivi

Il Comitato Disperazione è prolifico sempre ma in particolare in agosto. Ecco altri due video nani tratti da storie vere:

l’esenzione https://www.youtube.com/watch?v=ySpAIE827Rc

l’ultima consegna https://www.youtube.com/watch?v=s2dnkP__vAg

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Panettiera: The Movie (2017)

nel 2010 ho trascritto con le mie conversazioni con la panettiera in questo post.

la notizia è che l’abbiamo trasformato in video:

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Compromesso

Recentissima acquisizione nella collezione MAI – Museo Arte Involontaria, questa discussa opera senza titolo accompagnata però da una breve didascalia: “Cosa succede se si cerca il sito della Biennale su Google”.

Notare la discordanza tra le due frasi: “questo sito potrebbe essere compromesso” anche se precisano che si tratta del “sito ufficiale della manifestazione”. La provocazione è tanto evidente quanto involontaria. Tutto ciò che è ufficiale è compromesso, così come l’ambiguità del termine ci ricorda che tutta l’arte, per esistere, è frutto di un compromesso.

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Erica

Erica era appena uscita dal lavoro e prima di tornare a casa decise di fermarsi al bar per prendere un caffè. Solo un caffè, pensò, niente cornetti, pizzette o addirittura un aperitivo, dato che da un mesetto era a dieta senza motivo. Sedersi al bar da sola per un caffè al tavolino e nel frattempo guardare Facebook era una cosa che la rilassava tantissimo, e in quel periodo aveva decisamente bisogno di rilassarsi. Quando ordinò il caffè il cameriere sorrise il tanto giusto, non abbastanza da flirtare, non troppo da sfociare nella molestia sessuale: era una risata standard da trecentesimo caffè della giornata, identica a quella che aveva fatto poco prima a una anziana signora con le stampelle. “Un minuto e te lo porto” le disse senza alcun doppio senso, sempre in maniera professionale. Erica andò a sedersi, sistemò la borsa su una sedia, spinse le bustine di zucchero e un giornale lontano dal centro del tavolino e lì appoggiò il suo telefono. Aprì Facebook. Era lunedì, quindi i post vertevano su questo argomento, ovvero sulle cicliche lamentazioni e battutine relative all’inizio settimana, oppure sui pranzi domenicali, dato che tutti quelli che conosceva erano fissati ormai irrimediabilmente con la cucina e la domenica non sembravano fare altro. Poi, tra un post e l’altro, vide quella faccia: ancora lui. Era la decima volta questa settimana che qualche suo contatto condivideva un articolo su quella persona. Erica non aveva mai cliccato, ma stavolta, stanca delle lamentele sul lunedì e delle foto di gente che cucina, cliccò.

Non concordava con le sue opinioni, però, nella stanchezza post lavorativa, in quella bolla di solitudine che si creava piacevolmente nel tavolino del bar, per un attimo si dimenticò delle sue idee, di cosa quel volto rappresentasse, di cosa quella bocca dicesse e lo vide solo come un uomo, un uomo come tanti. Uno della sua età, un tipo tutto sommato non malaccio, dall’aspetto non troppo intelligente ma furbo quel tanto da cavarsela nelle situazioni normali, con lo sguardo sicuro di sé, pure troppo, cosa che in fondo non le dispiaceva. I suoi ex erano tutti tipi intelligenti, simpatici, buoni, ma non avevano quello sguardo arrogante. Certo, le sue idee erano all’opposto delle sue e sembrava una persona senza sentimenti, ma in fondo non lo conosco, pensò, chi sono io per giudicare. Era così stanca che in quel momento era incapace di criticare ma, a quanto pare, solo di provare una casuale empatia per un semplice volto, al di là di ogni pregiudizio. Sotto la foto e l’articolo c’erano centinaia di commenti, tutti contro, alcuni ben argomentati, altri semplici insulti. “Ecco il caffè” disse il cameriere appoggiando la tazzina sul tavolo, con un gesto sobrio e per niente malizioso. Erica nascose immediatamente il cellulare, dato che non voleva dare l’idea sbagliata al cameriere, nonostante sembrasse un tipo riservato e professionale, forse omosessuale. “Grazie.” disse. Posò il telefono e bevve il caffè, naturalmente senza zucchero, altrimenti che dieta è? Guardava un po’ assonata fuori dalla vetrina del bar le persone che passavano e iniziava a pensare alle cose che doveva fare una volta a casa: la lavatrice da caricare, forse anche la lavastoviglie, chiamare sua madre, scegliere un film su Netflix, ad esempio uno con quell’attore che le piaceva ma di cui non si ricordava il nome, com’è che si chiama? Ha gli occhi chiari, gli zigomi sporgenti, due kappa nel cognome… Ma improvvisamente il suo sguardo fu catturato da un evento inatteso introdotto da un rumore: DLIIIIN, uno scampanellio che per un attimo pensò venisse dai suoi pensieri, ma che in realtà veniva dalla porta del bar. Entrarono quattro uomini, tre sembravano poliziotti o guardie del corpo, l’altro era di spalle… non lo vedeva bene, eppure le sembrava di conoscerlo. Il cameriere salutò la persona con un sorriso inedito, Erica sentì ordinare un caffè e per un attimo lo vide girarsi e guardarsi intorno. Non ci poteva credere. Era lui. Era la persona che stava guardando poco prima su Facebook. Era Matteo Salvini.

Erica cercò di distogliere lo sguardo, ma solo per un attimo, poi tornò a guardarlo e in quel momento lui la intercettò e disse “buonasera”, dato che lei era l’unica persona presente nel bar a parte il cameriere. Erica si sentì arrossire e rispose al saluto con un falso sorriso di circostanza. Guardò altrove, ma con la coda dell’occhio lo controllava e sentiva il suo sguardo su di lei. “Mi leggo il giornale” disse lui al cameriere, che gli rispose “Certo, faccia pure”. In quel momento Erica si ricordò che il giornale era sul suo tavolino e capì che tra poco un contatto sarebbe stato inevitabile. Cosa doveva fare? Doveva dirgli qualcosa? Criticarlo? Ignorarlo? Non rispondere nemmeno? Scappare via? Cosa avrebbe raccontato agli amici? Avrebbe scritto qualcosa su Facebook? Doveva fare una foto e postarla subito? “Posso?” disse Salvini, che in quel momento era davanti a lei. “Certo” rispose lei. Lui prese il giornale e andò a sedersi. Lo osservò aprire il giornale e commentare a voce alta le notizie, con battute che però lei non capiva e che né il cameriere né i tre uomini al seguito di Salvini prendevano in considerazione. Evidentemente anche lui cercava la sua bolla di solitudine in un tavolino del bar. “Ma tu guarda questo” diceva. O frasi come “Apperò, ma dai” o “Seeee, come no. Ma va, va”. Erica si accorse che lo guardava già da troppo tempo e stava mandando al cervello l’impulso di distogliere lo sguardo, quando di nuovo era troppo tardi: lui l’aveva intercettata. Aveva capito che lei era interessata. La guardò un attimo, sorrise gentile e riprese a sfogliare il giornale. Lei guardava in basso. Era strano vederlo in carne ed ossa proprio lì, dopo che un minuto prima l’aveva visto sul display del suo telefono. Cosa significava? Era un segno? Era un sogno? Erica sorrise per il gioco di parole, e Salvini se ne accorse. “Beata lei che sorride, si vede che non ha letto il giornale” disse. Lei, presa alla sopravvista, rispose solo “No”. Lui continuò: “Fa bene, guardi, a volte nemmeno io vorrei leggerli”, disse a testa bassa mentre sfogliava le pagine. Ci fu qualche istante di silenzio, poi Salvini sorrise da solo, cosa che attirò l’attenzione di Erica e di nuovo i loro sguardi si incrociarono, per poi separarsi un battito di palpebre dopo.

Salvini ordinò un bicchiere d’acqua che il cameriere gli portò immediatamente. Erica pensava fra sé: perché non sono ancora andata via? Perché sono ancora qua? Sono attratta da lui? Per alcuni è un mostro, che sto facendo? Lo sto umanizzando? Sto pensando che dopotutto anche lui si prende un caffè da solo al bar? Che forse tra me e lui non ci sono tutte queste differenze? E’ innegabile che tra me e lui sia in atto qualcosa: basta, me ne vado. Alzò con cautela lo sguardo verso di lui e a quel punto fu come se la realtà andasse al rallentatore, come in certe scene dei film. Sembrava che ci fossero solo loro due e quell’istante diventò lunghissimo, i loro sguardi si incrociarono, si unirono, erano un solo sguardo, fu come stare pupilla contro pupilla, come se entrambi cadessero nello sguardo dell’altro ed Erica provò qualcosa di strano, piacevole, certo, ma anche strano. “La macchina è pronta” disse qualcuno.

Questa frase interruppe il momento rallentato e la realtà riprese a scorrere alla velocità normale. Entrambi abbassarono lo sguardo. La voce che aveva appena sentito era di uno dei tre uomini. “Arrivo” disse Salvini, e fece per alzarsi, ma si fermò e guardò pensieroso Erica. Poi dalla tasca prese una penna e scrisse qualcosa su un fazzoletto. Lo piego a metà, si alzò e lo appoggiò sul tavolino di Erica: “E’ stato un piacere” disse sorridente, mentre lei arrossiva e non trovò il tempo di rispondere. Lui salutò il cameriere e andò via. Erica lo seguì con lo sguardo attraverso la vetrina, mentre attraversava la strada e saliva su un’automobile nera. Forse è il momento di andare via, pensò, meglio tornare a casa, c’è la lavatrice da fare, e poi com’è che si chiama quell’attore, ha un nome strano, forse è danese? Con questi pensieri in testa prese il telefono in mano e stava per alzarsi quando vide il fazzoletto piegato a metà. Che stupida, si era quasi dimenticata di quel gesto così insolito. Cosa può avermi scritto? E’ l’inizio di una strana storia d’amore? si chiese. Sarà il suo numero di telefono? Ma che idee si è fatto quel cretino? Era confusa, un po’ spaventata ma anche affascinata da quella situazione vagamente eccitante. Oddio, aveva pensato quella parola? Eccitante? E’ così che avrebbe raccontato il suo incontro casuale in un bar con Salvini? E se davvero c’è il suo numero di telefono? O forse un complimento, o qualche battuta simpatica e romantica, come nei film. Basta, si disse, lo leggo. Aprì il fazzoletto. C’era scritto: “Ieri 450 morti nel Mediterraneo :)”.

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È che non ho nemmeno il medico

Ma in 10 minuti posso fare cose molto più divertenti!

Per questo rimando da agosto

Ci vorrebbe autodisciplina ma alla Conad l’avevano finita

Un buon 23 gennaio amici e amiche. Auguri! Vi auguro di passarlo in serenità e allegria con amici, parenti e vini di qualità senza solfiti aggiunti.

su questo sai che concordo. ma quindi non rispondo a questi due individui così sicuri del fatto loro?

io risponderei “il tempo non esiste”

“facebook è un’illusione”

“luca, sono tua madre”

“hai raccolto i bollini inutilmente”

beh per gli abbandonisti il manicomio abbandonato è un po’ come un POV HD “first time in video!!” nei siti porno

Gelo si. La notte ghiaccia tutto. Neve no

Ah beh, allora ok. Ci sono tanti modi di credere dopotutto

E Vialli che cazzo c’entra?

Radio sintony gestita dall’isis.

Il prossimo è un pezzo techno balcanico che penso farà saltare in aria il concetto di “tamarro”

Babba Bia bagazzi

Ah si stupendo. L’ho visto un paio di anni fa

Robertino idolo

Il mio personaggio preferito era il russo sul materasso

Il materusso.

Quello che beveva birra

“dentro il mio cuore c’è un fuoco che brucia, ma i miei occhi sono cenere spenta”

mi aveva pure invitato a roma per presentarmi persone per trovare un lavoro, ma le parole “roma” “presentarmi persone” e “lavoro” mi hanno costretto a rifiutare l’invito.

beh pacciani grande riferimento. ho visto un sacco di volte il processo, è grande teatro

non è il mio compleanno, facebook sbaglia

sì ma basta pizze sbagliate in locali da asporto senza bagno con la tovaglia in plastica e il formaggio finto e la cameriera compassionevole ma stronza

senza dubbio il mio romanzo di fantascienza preferito.

l’unica cosa che posso fare per prolungare la sensazione di sogno appena sognato è rileggermi subito il romanzo

per fortuna esistono gli epub, va

come va? Vorrei che dai rubinetti uscisse vino e invece esce acqua, a parte questo bene

non dico solo che concordo, ma che stampo questa mail e vado a inciderla su una grotta in modo che gli archeologi si convincano che sia stata scritta 20mila anni fa e pensino alla VERITA’ ETERNA.

sto facendo meditazione quasi ogni giorno, in un anno dovrei iniziare a incendiare le cose con la mente

ah sì? stop Canon?

se mi vuoi chiamare ora sono dove prende

ma perchè il kilt?

Ieri mi è arrivato un pacco e il corriere era di baratili

Ma pensa che piccolo il mondo. Infatti vorrei andare su marte

Ma sei a Milano o a oristano? Curioso che tu stia solo in posti che finiscano in “ano”.

e sei in parte siCULO, ovvero siciliANO.

eh, certo. è nato l’altro ieri in realtà

ma la dieta vegana fa viaggiare nello spazio e nel tempo

mogoro glamour

dalla parrucchiera c’è Internazionale e non novella2000.

dunque se un tempo si parlava si diceva “hai visto l’ultima puntata di uomini e donne?”, oggi dalla parrucchiera si dice “hai visto le ultime foto dalla siria?”

è un dato di fatto che non ha senso criticare un dato di fatto

basta cazzo, lasciate in pace questo povero manicomio di volterra

sono sempre soldi ben spesi i soldi non spesi

cmq va detta una cosa: se io vivessi solo andrei a vivere in una catapecchia, un posto da 250 euro al mese sperduto in campagna (si trovano), vivendo con la luce di una candela, lavandomi una volta al mese e spendendo tutto in vino e internet. vivere in coppia comporta una qualità della vita più alta (ovvero più costosa)

ad esempio le donne delle pulizie prendono 8 euro netti. secondo me è come l’olio: sotto gli 8 euro al litro c’è sfruttamento.

i miei vicini di casa si chiederanno perchè ascolto rutti a tutto volume

mando il curriculum al vaticano

da giornalista gli farei una domanda: ma se ci fosse un vaccino contro le scie chimiche? in quel caso che si fa?

ah questa è la classica battuta che posso mettere su facebook per fare il simpatico. non la metto perchè è banale. accontenta troppo il pubblico.

ma pensavo: in una coppia omosessuale se uno fa il papà l’altro può fare le foibe?

sulla mia lapide scriveranno che chiedevo sempre a tutti “come va?”.

non mi dispiacerebbe essere ricordato per questo.

se facessero un biopic sulla mia vita sarei interpretato da margherita buy.

ma quando i siti ti dicono “ci dispiace che tu abbia dimenticato la password” quanto sono ipocriti? non è vero, non gli dispiace veramente!

comunque se ci pensi gli estranei per eccellenza, i veri estranei, sono i parenti.

Ahahah pure io ho i pantaloni a metà tra rigoletto e “sei arrivato tardi quando hanno distribuito i vestiti”. Eppure non mollo. Non li compro!

Che succede? Mi hai chiamato? Mi ero addormentato.

(selezione casuale di miei messaggi privati su whatsapp, telegram, gmail)

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Ma.

Ma questi laureati belli sani e puliti che nelle foto sono pure felici

con rasature perfette, ottima vista, bei capelli e muscoli,

parlano bene

sanno tutto

fanno sport

vanno nei locali

conoscono le lingue

sanno scegliere i vestiti

viaggiano

sostengono i diritti umani

non hanno mai avuto dermatiti

(nè forfora)

se hanno avuto malattie imbarazzanti è perché avevano scopato

lavorano

fanno figli

si condividono tra loro

si ricordano delle cose

bevono birra

sono buoni

fanno mountain bike o vanno a correre

postano foto dove si baciano tra loro

hanno i denti buoni

e sono informati

capiscono pure di libri

di musica

di cucina

di geopolitica

di moda

(di cinema no)

essi insomma sono perfetti, la razza umana andrà avanti perché loro hanno i soldi e la voglia di riprodursi, hanno lo spirito, hanno la rasatura perfetta, un buon codice genetico, un giusto stile di vita e una buona alimentazione, anni di contributi,

avranno la pensione e siccome hanno sempre avuto cura del corpo saranno degli anziani in forma, avranno figli pronti ad aiutarli, perché li hanno fatti quando erano giovani

saranno rispettati da amici, parenti e colleghi

dai vicini di casa

dalla gente su internet

avranno contribuito a migliorare la società in cui vivono

i loro figli faranno arti marziali, avranno denti perfetti e lavori ben retribuiti

parleranno 5 lingue

avranno amici di colore

di tutti i colori

avranno case di proprietà

avranno bici spaziali e auto elettriche

inventeranno la macchina per viaggiare nel tempo

torneranno indietro per venire a vedere quelli come me perché non crederanno che siamo esistiti

e ci vedranno sudati, sporchi, spettinati, con le occhiaie, i denti rotti, i vestiti sbagliati, non istruiti, non formati, insoddisfatti, ingranaggi arrugginiti, non oliati,

ci faranno le foto e poi le metteranno su internet

faranno raccolte fondi per tornare indietro e aiutarci

quindi un giorno vedremo arrivare i loro nonni

questi laureati belli sani e puliti che nelle foto sono pure felici

con rasature perfette, ottima vista, bei capelli e muscoli,

simpatici e istruiti, vorranno diventare nostri amici, avvicinarci a noi per aiutarci

ma noi capiremo:

“In realtà lo fanno perché i loro pronipoti hanno inventato la macchina del tempo, sono tornati indietro e ci hanno visto e hanno provato pena per noi”

allora diffideremo

e loro diranno ai loro pronipoti:

“Vedete? Non si fanno aiutare”

allora sorrideranno, compassionevoli, simpatici

noi saremo stronzi

noi saremo troll

noi saremo alt-right

ci vergogneremo

diremo da soli “ma come, alla vostra età” prima che lo dicano altri

voteremo trump

voteremo berlusconi

voteremo kim il-sung

disegneremo cazzi

disegneremo svastiche

disegneremo un pò scritto con la o accentata

qual’è con l’apostrofo

non useremo il congiuntivo

saremo per il bullismo

per la vivisezione

ascolteremo mozart e rossini bevendo tavernello e bellini

spalmeremo caviale dicendo a tutti che è merda

parleremo in stanze vuote, faremo battute che non sentirà nessuno

ci farà schifo tutto

ci faranno schifo tutti

ci faranno schifo noi

ci faranno schifo loro

e diremo ai pronipoti:

“Voi non conoscete il dolore, non l’avete mai conosciuto da generazioni”

ma loro ci diranno

“E invece sì”

e ci spiegheranno che l’hanno conosciuto più di noi, ci racconteranno storie vere, terribili, commoventi, ci faranno ridere, riflettere, ci faranno provare emozioni

e noi diremo

“Giocate con i sentimenti e sapete incidere anche a livello razionale, siete i nemici peggiori perché non sapete essere nemici”

loro saranno confusi

allora noi ne approfitteremo per dire:

“E poi vi prendete sul serio!”

ma essi non si prenderanno sul serio, saranno ironici, saranno leggeri, saranno buffi, saranno famosi,

noi gli diremo che esiste la muffa

che la muffa ha tanti colori

che esiste il tartaro

che esiste l’anafora

l’epanadiplosi

l’epanalessi

spazi e tempi del suono

solitudini immense, sconfinate

praterie di muffa e tartaro

di disagio

non si arrenderanno ma durante il sonno

mentre dormono sui loro letti di canapa e piume di pegaso BIO,

con le loro compagne abbronzate, atletiche, con i denti perfetti, non fumatrici, che hanno fatto le matte ma poi hanno smesso,

improvvisamente durante il sonno

mentre dormono (perfettamente)

mentre tutto dorme (con i muscoli rilassati, senza russare, belli da vedere anche mentre dormono, utili alla società anche in quel momento)

mentre in apparenza nulla avviene

nel loro cervello un’idea si farà strada:

e ai loro occhi chiusi appariranno le praterie di muffa

montagna di tartaro e solitudine

deserti impossibili

cieli vuoti

50 sfumature di grigio – letteralmente

disturbi dell’umore

ed essi non saranno preparati, non sapranno gestirle, saranno abissi troppo profondi, gli mancherà l’aria, gli occhi cambieranno colore, i capelli diventeranno come di paglia

tutto inizierà a marcire

la radice sarà corrosa

pustole gialle sulla pelle

piccole croste sui volti dei loro figli

foto di gruppo, foto di coppie

la pelle si scioglie

tutto cade

cispa rosa

ragnatele

e soprattutto

 

(titolo “E’ meglio non passare troppo tempo su Facebook”)

 

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Il maresciallo Bergoglio

Non è la prima volta che la Chiesa si produce in endorsement di questo tipo, nel tentativo di accappararsi il favore dei giovani, in linea con l’approccio furbo alla comunicazione che caratterizza il papato di Francesco, detto amichevolmente l’Anticristo o il papa nero. E non ci sembra un caso che proprio un carabiniere nero (esponente della street art newyorkese, in linea con le posizioni progressiste e giovaniliste del maresciallo Bergoglio) sia posizionato simbolicamente davanti al suddetto papa. Alle spalle una statua venutamale della marescialla Maria, citazione doverosa di una corrente che, come abbiamo osservato più volte, ha molto in comune con il carabinierismo. I curatori del MAI aggiungono inoltre che: 1) sarebbe bello se nelle foto pubbliche e di rappresentanza le cariche dello Stato fossero obbligate a spogliarsi di tutti i propri simboli di potere, in pratica: tutti nudi; 2) nell’angolo in basso a sinistra abbiamo il più alto livello di carabinierismo raggiungibile in un’opera involontaria, e cioè la posa da selfie in pizzeria: il carabiniere dai tratti lombrosiani gioioso di passare alla storia appoggia il braccio sulla spalla del suo amico e collega, il cui cappello si potrae con la visiera fino a quasi toccare la punta del naso, simbolo che il carabinierismo è molto forte in lui. L’opera è come sempre anonima, ma il titolo scelto pare fosse “Quando fai una festa in costume ma c’è sempre quello che aveva capito male”.

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Scrivi un commento

evidentemente ho un approccio leggermente ansioso ai social network: quando commento lo faccio con le dita che tremano, correggo varie volte le frasi (all’inizio normali, comprensibili, scorrevoli, poi diventano sempre più brutte), tentenno sul tasto invio… pubblico? non pubblico? ma no, non pubblico. e il 90% delle volte faccio questi commenti virtuali, che poi ricordo di aver fatto e mi chiedo come mai tizio o caio non mi rispondano, ma che in realtà non ho pubblicato. oppure, quando ho commentato davvero, dopo mi viene da aggiungere 3mila commenti lunghissimi, spiegare perché ho detto una cosa, spiegare il contesto, ipotizzare possibili incomprensioni, immaginare ogni possibile punto di vista, gli errori cognitivi, la condizione socio-economica di chi scrive e di chi legge, raccontare della mia vita, scrivere una storia del mondo, tassonomie animali, la tavola periodica degli elementi, le costellazioni, e si era partiti dalla domanda “ma voi usate il grana o il parmigiano?” (nessuno dei due).

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Street Art

Il parcheggio riservato ai carabinieri (2017). Il carabinierismo accetta la sfida della street art ma non può scrivere sui muri e dunque si dà all’arte orizzontale.

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Tecniche di rilassamento

A volte per sfuggire all’ansia o alla rabbia sperimento delle tecniche di rilassamento. Chiudo gli occhi, immagino di tuffarmi in mare, in un grande mare blu. Di colpo spariscono tutti i suoni esterni, sono circondato dall’acqua, leggero. Intorno a me buio, riflessi misteriosi, forse qualche pesce, poi il fondale diventa sempre più lontano e oscuro… mi sembra di essere seguito – in pratica mi viene l’ansia anche sott’acqua.

Allora, per sentirmi più a mio agio, immagino di essere un pesce nel suo elemento naturale, e mi vedo nuotare muovendo la pinna caudale, allegro, spensierato. Ma sono un pesce piccolo, dunque mi viene l’ansia all’idea dei milioni di predatori intorno a me, creature enormi che dal buio degli abissi potrebbero apparire improvvisamente e sbranarmi.

Dunque per rilassarmi immagino di essere uno squalo, un predatore che gira alla ricerca di prede da uccidere, ma questo mi provoca angoscia, perché mi sento schiavo dei miei istinti, e comunque tutto quello spazio freddo e oscuro intorno a me non mi rilassa affatto.

Allora immagino di essere il sottomarino nucleare Le Terrible, il lanciamissili a propulsione nucleare di ultima generazione della marina francese.

Lungo 138 metri, largo 12, alto 22, velocità di immersione 25 nodi, è dotato di 16 SLBM (Submarine-Launched Ballistic Missile), M51 con portata di oltre 8.000 km, siluri ECAN L5 Mod 3 e missili antinave Exocet SM39.

Immaginando di essere un sottomarino nucleare che sfreccia silenzioso a centinaia di metri sott’acqua, protetto da uno strato di metallo, aerodinamico, armato e letale, mi rilasso.

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