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Breviario di Psicanalisi

Sogni: racconti sconclusionati molto interessanti e divertenti se fatti da noi, inutili e noiosi se fatti da altri. Grazie ai sogni però è possibile accedere all’inconscio.

Inconscio: è il luogo mentale dove le persone nascondono le password. A volte se le dimenticano ma grazie alla psicanalisi è possibile recuperarle.

Etica: è il motivo per cui un buon psicanalista non deve utilizzare le password degli utenti per entrare nei loro account, se non per aiutarli.

Eccezione: può capitare che uno psicanalista decida di accedere all’inconscio e rubare le password per  poi venderle nel dark web. Esempio: “Ho fatto un’eccezione”.

Fase anale: per indicare una fase scadente nella produzione artistica di un musicista, scrittore, regista. Esempio: “Hai visto l’ultimo film di Clint Eastwood? E’ proprio nella fase anale”.

Pulsione: processo dinamico consistente in una spinta energetica che fa tendere l’organismo verso una meta, ad esempio alzarsi durante la notte per mangiare l’ultimo pezzo di formaggio rimasto in frigo perché non si riusciva a dormire al pensiero.

Nevrosi: più persone agitate e irritabili, i nevrosi. Esempio: “Oggi sono molto nevroso. Ma cosa succede oggi? Sono tutti nevrosi”.

Narcisismo: è un mix di egoismo, vanità, autocompiacimento e laurea in filosofia. E’ un tratto della personalità che può diventare un disturbo mentale o uno psicanalista, o entrambe le cose.

Super-Io: gente che si crede chissà chi e tende a esagerare. Esempio: “Ho fatto Sassari-Cagliari in 45 minuti Super-Io!”.

Es: esclamazione di meraviglia. Esempio: “Ho fatto Sassari-Cagliari in 45 minuti” “Es!”

Ego: “ecco” pronunciato da ubriachi. Esempio: “Ego la padende, miii schhscusi ma il lirbetto non lo tlovo”.

Edipo: eroe tragico dell’antica Grecia, era intelligentissimo e aveva risolto l’enigma della sfinge, però poi senza accorgersi ha ucciso il padre e si è sposato con sua madre. Bravo, bravo, complimenti!

Sindrome di Edipo: si usa per dire che non basta saper risolvere enigmi, essere bravi con il sudoku o le parole crociate per essere intelligenti, perchè poi magari non si è bravi nelle cose pratiche. Come Edipo.

Pippo: eroe tragico del mondo Disney, non viene usato spesso nella psicanalisi moderna e la Sindrome di Pippo ha avuto meno successo di quella di Edipo.

Padre: è colui che vi ha generato ma non vi ha partorito e che vi darà soldi quando ne avrete bisogno. Nella psicanalisi contemporanea è diventata una figura fluida, può essere chiunque, non per forza è un uomo e a volte indossa un mantello e un casco nero. Esempio: “Luke, sono tuo padre”.

Io: Tu.

Tu: sempre Tu.

L’Altro: non Tu.

Altra: come sopra ma al femminile. Esempio: una Donna, una Madre, una Figlia, una Tipa vista in treno, un’Altra volta ho dimenticato di fare la ricarica, un’Altra volta al centro commerciale di domenica e mi sparo, un’Altra puntata e poi la molliamo.

Altri: più gente che non sono Tu, e sono tutti contro di Tu.

Libido: teoria dello psicanalista freudiano Calogero Calà, divisa in amore primario, amore secondario, libidine, doppia libidine e libidine coi fiocchi.

Ambivalenza affettiva: sentimenti contrastanti diretti verso un unico oggetto. Può sviluppare un “conflitto d’ambivalenza”. Esempio: il sushi.

Transfert: viene usato per spostare file di grosse dimensioni dal paziente all’analista.

Jung: Neil, cantante e chitarrista canadese, giustamente da molti preferito a Freud.

Psicologo: non ha studiato abbastanza e il problema è che ora non può fare le ricette.

Psichiatra: ha studiato e può fare le ricette.

Lapsus: è quando si dice per sbaglio una cosa che non si vorrebbe dire. Capita spesso in situazioni quotidiane. Esempio: invece di dire “Scusi, mi sa dire l’orario?” si dice “Sono dell’Isis e sto per compiere un attentato, non parli e non chieda aiuto o tutta la sua famiglia morirà”.

Negazione: meccanismo di difesa che porta la persona a negare un aspetto della realtà particolarmente spiacevole. Esempio: “No guarda, mi confondi con qualcun altro: non ho mai ascoltato Capossela in vita mia”.

Lacan: psico stilista francese ispiratore di Christian Louboutin.

Protomentale: le prime funzioni mentali che si sviluppano nel cervello del feto. Usato spesso come insulto. Esempio: “Ma cosa sei, protomentale?”.

Sublimazione: quando la pizza viene particolarmente bene.

Chiarezza: è ciò che il paziente deve fare grazie all’aiuto dello psicanalista. Come sintetizzava il celebre psicanalista Marvin Heemeyer: “Attraverso la sublimazione del Falso Sè si oggettivizza l’onnipotenza soggettiva dello spazio transizionale tra investimento libidico e scissione della identificazione proiettiva nella misura in cui l’interazione inconscia è percepita in una prospettiva diacronica”.

Sincronicità: fenomeno per cui tutti i bambini con i capelli rossi arrivati all’età di 12 anni tentano di uccidere entrambi i genitori con una paletta ammazzamosche (non ci riescono).

Archetipo: è tipo un architetto ma non è laureato.

Eros: è la pulsione di vita che si contrappone alla pulsione di morte. Secondo Freud in tutti noi è in corso una lotta tra Eros e Thanatos, tra pulsione di autoconservazione e angoscia autodistruttiva. Il fenomeno è ben noto tra i pendolari di Trenitalia.

Ricevuta: disturbo dell’umore che altera il funzionamento vitale della persona, in particolare dell’analista, portandolo addirittura a pensieri di suicidio, quando sente la frase: “Scusi, ma non mi fa la ricevuta?”

Proiezione: è quando vediamo negli altri le cose negative che non vogliamo vedere in noi stessi. Esempio: “Matteo Salvini”.

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No Maria, Ionesco

NO MARIA, IO ESCO

NO MARIA, IONESCO

NO MARIA, UNESCO

NO MARIA, IO ESCORT

NO MARIA, IO EXPO

NO MARIA, IO CRESCO

NO MARIA, IO.EXE OH

NO MARIA, IO DESKTOP

NO MARIA, IO NON RIESCO

NO MARIA, SI MARIA

NO MARIA, DIMMI

NO MARIA, MI SENTI MARIA?

NO MARIA, MARIA IO NON TI SENTO BENE

NO MARIA, NON C’E’ CAMPO?

NO MARIA, PROVO A SPOSTARMI

NO MARIA, TI SENTO E NON TI SENTO

NO MARIA, MA FORSE E’ IL MIO TELEFONO

NO MARIA, COL NOKIA NON AVEVO MAI NESSUN PROBLEMA

NO MARIA, QUESTI TELEFONETTI NUOVI COSTANO E NON FUNZIONANO

NO MARIA, FORSE E’ IN CASA CHE NON FUNZIONA

NO MARIA, IN EFFETTI HA LE PARETI MOLTO SPESSE

NO MARIA, NON E’ BRAMANTESCO

NO MARIA, MAGARI PROVO AD ANDARE FUORI

NO MARIA, IO ESCO

NO MARIA, SONO FUORI

NO MARIA, SI ADESSO TI SENTO.

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Quando c’era Lui

Il sistema automatico di gestione delle linee ferroviarie era entrato in funzione 15 anni prima. La sua perfetta efficienza aveva convinto da subito tutti. 50mila treni ogni giorno andavano e venivano in sicurezza e soprattutto in perfetto orario. La percentuale di successo era del 100%. Non c’era nessuno che negli ultimi 15 anni avesse preso un treno in ritardo, o il cui treno fosse stato cancellato, e nessuno conosceva qualcuno a cui fosse successo.
Lo slogan diffuso dal ministero dei trasporti era ironico e raffinato. Si rifaceva a una diceria risalente ai tempi passati: “Da quando c’è LUI i treni arrivano sempre in orario”.
LUI era il sistema. Non era né maschio né femmina, ma solo un complesso software sviluppato inizialmente con lo scopo di prevedere eventuali ostacoli e imprevisti che potessero causare ritardi o incidenti. Non tutti lo sapevano, ma il programma aveva una parte sperimentale che gli consentiva di apprendere e migliorarsi. Da subito i tecnici che ci lavoravano scoprirono che quella parte funzionava benissimo: in pochi giorni il sistema era completamente autonomo. Dopo due anni di test il sistema iniziò a lavorare da solo, senza alcun controllo umano, né il bisogno di una supervisione.
“Riesce a compiere in un minuto operazioni che 10 nostri operatori dotati di vecchi computer compierebbero in un mese” spiegò il ministero dei trasporti.
LUI diventò adulto. Dalla centrale di controllo coordinava tutti i treni d’Europa e non c’era più nessuno a guardarlo. Mai un ritardo, mai un incidente, mai un errore.
Per questo motivo, quando successe, tutti cercarono le spiegazioni altrove. Nessuno riusciva ad accettare che LUI potesse aver sbagliato.

Il bilancio, comunicò il governo, era di 350 morti. Due treni si erano ritrovati sulla stessa linea e si erano scontrati alle 6.45 del mattino. Poteva andare peggio, dato che uno dei due era partito da poco e solo mezz’ora più tardi avrebbe portato quasi 900 persone. LUI venne disattivato per effettuare dei controlli e capire cos’era successo. O almeno così diceva una nota del governo diffusa dalla stampa.
I pochi tecnici che avevano lavorato alla fase finale dello sviluppo di LUI sapevano che non era vero. Perché sapevano che non era possibile disattivarlo.
“Come sarebbe a dire che non è possibile?” aveva chiesto il ministro. Lui stesso ne era all’oscuro. “E’ un programma! Resettate e riportate il sistema alla versione precedente, quella controllata da noi. Per qualche giorno ci saranno ritardi, ce ne faremo una ragione”.
“Non è possibile” rispose il capo tecnico della sala di controllo.
E aveva ragione. Non era possibile perché LUI diversi anni prima, sfruttando la sua capacità di autoapprendimento, aveva cancellato la versione precedente e scritto da solo delle parti di codice che gli permettevano di funzionare al meglio. Non solo: aveva perfezionato anche il linguaggio, inventandone uno suo, che risultava incomprensibile ai tecnici ma che funzionava.
“Si è perfezionato da solo” spiegò il tecnico. “Noi non comprendiamo buona parte della sua struttura. Diciamo che funziona ma non sappiamo come”.
Il ministro era sconvolto.
“Ma si rende conto di cosa mi sta dicendo? Quindi voi cosa fate qua? Le pulizie?”
I tecnici abbassarono lo sguardo, non sapevano come giustificarsi. Il ministro volle essere portato nella sala di controllo, quella che i tecnici chiamavano La Camera. Era una piccola sala senza finestre al quarto piano della grande torre del ministero protetta da quattro strati di pareti in cemento armato. Due guardie sorvegliavano la porta e in ogni angolo c’erano videocamere di sorveglianza. Il tecnico inserì un codice nella porta e accompagnò il ministro all’interno. Non c’era una sedia dove sedersi, non c’era un tavolo, ma solo una torre nera, lucida, con una luce verde e una gialla lampeggiante.
“Questo è LUI? Non era così quando l’ho visto l’ultima volta”.
“Le altre parti si sono dimostrate superflue dopo i cambiamenti che ha apportato” disse il tecnico un po’ preoccupato. “Ha ottimizzato il codice, e noi abbiamo dovuto rivedere anche l’hardware. Questa è la sua conformazione attuale”.
“Avete dovuto rivedere? E chi vi ha dato l’ordine?”
Il tecnico ammise che era stato LUI. “Ha solo reso il sistema più efficiente e preciso. Noi non saremmo arrivati a questo livello nemmeno in 30 anni, signor ministro. E’ la verità”.
“Mi sta dicendo che tutto quello che voi vedete sono queste due lucine? E che vi manda degli ordini? Vi manda dei messaggi? Parla?”
“No. Si è creato una casella postale e ci ha mandato delle mail con gli schemi da cambiare. Ma ormai è più di un anno che non comunica più”.
Il tecnico spiegò il funzionamento delle luci: quella verde indicava semplicemente che LUI era acceso o, come dicevano loro, “sveglio”, mentre quella lampeggiante diventava rossa in caso di problemi, che però risolveva da solo.
“Noi non sappiamo cosa faccia e come, ma sappiamo che funziona perfettamente”.
“Sono morte 350 persone stamattina” ricordò il ministro.
Il tecnico non rispose. Anche lui, come tutti gli altri, riteneva impossibile che LUI avesse sbagliato.
“La luce lampeggiante è diventata rossa?” chiese il ministro.
“A dire la verità no” rispose il tecnico. Non ci sono stati problemi”.
Una squadra di ispettori venne incaricata dal ministro di venire a capo del problema. Alla stampa venne detto che LUI era stato disattivato e che la gestione dell’intera linea ferroviaria europea era stata affidata a tecnici umani. Ma una decina di persone, tutti dipendenti del ministero, sapevano la verità. E cioè che, nonostante il terribile incidente, era ancora tutto nelle mani del sistema automatico.
Dopo due giorni senza dormire i tecnici avevano più domande che risposte, ma convocarono il ministro per esporgli i risultati dell’indagine.
Il tecnico si schiarì la voce e iniziò a parlare: “Dunque. La situazione al momento è questa: LUI fa tutto da solo, ma noi abbiamo il controllo di un firewall che protegge la rete da eventuali incursioni esterne.”
“Ah, lo sapevo!” disse il ministro. “Sono stati quei bastardi di terroristi. Sono entrati nel sistema e hanno sabotato LUI, giusto?”
Il tecnico non rispose e guardò i suoi colleghi. “Non esattamente” disse infine. “No” aggiunse per essere più chiaro.
Poi prese coraggio e riprese a parlare.
“Signor ministro, la verità è che il sistema non ha segnalato nessuna incursione dall’esterno. Nessuno è entrato nella rete. Ma è successa una cosa strana.”
“Sarebbe a dire?”
“Nessuno è entrato, ma LUI è uscito”.
Il ministro si lasciò sfuggire una parola che non si usava più ormai da anni. Poi chiese: “In che senso LUI è uscito? Mi state prendendo in giro?”
“No” rispose ancora una volta il tecnico. “Il firewall era come un lucchetto che teneva chiusa la porta, ma non potevamo immaginare che LUI potesse… come dire, scassinarlo”.
“La smetta con queste immagini puerili, non sono un idiota. Usi un linguaggio semplice ma si spieghi senza giri di parole inutili”.
“Lui ha visto il firewall come una limitazione al suo controllo. Senza quello poteva uscire dalla rete e raggiungere altri dispositivi. Questo l’abbiamo ipotizzato, dato che non ha lasciato alcuna traccia. Ma secondo i nostri test, da circa sei mesi LUI ha accesso a tutti i sistemi di videosorveglianza e a tutti i dispositivi degli utenti”.
“Come?”
Il tecnico annuì e confermò che il sistema era capace di entrare in tutti i dispositivi mobili delle persone che prendevano i treni. In questo modo, secondo le ipotesi dei tecnici, poteva localizzare le persone e calcolare eventuali ritardi. “Sa chi prende il treno, sa quando lo prende. Per essere più efficiente ha aggiunto tra le variabili tutto ciò che ha a disposizione. In pratica, tutto. Ha un controllo totale. Non siamo in grado di dire come utilizzi questi dati, ma sappiamo che li usa”.
“E allora perché diavolo ha fatto scontrare volontariamente due treni?”
“Noi pensiamo… siamo quasi certi diciamo, che LUI abbia individuato un terrorista su uno dei due treni. Controllando il suo cellulare ha scoperto che questo individuo si sarebbe fatto esplodere poco dopo, quando il treno sarebbe stato pieno di passeggeri. Così ha calcolato che era più conveniente farlo scontrare prima: meno morti, meno danni”.
Il ministro impallidì. “L’ha deciso LUI?”
“Be’, l’ha calcolato. Ha scelto l’opzione che gli è sembrata migliore. Il terrorista probabilmente era appena salito, più tempo lasciava passare e maggiore era il rischio”.
“Non poteva avvertire la polizia, comunicando come aveva fatto con noi?”
“Non lo so” rispose il tecnico.
In effetti, per quanto apparentemente logico, il ragionamento non era così convincente. Ma era l’unica spiegazione che avevano trovato dopo due notti insonni. La cosa più preoccupante era che LUI si era espanso oltre ogni limite immaginabile, in maniera totalmente autonoma e indipendente, e nessuno aveva idea di come funzionasse.
“Forse si è autoprogrammato per mettere come priorità assoluta l’efficienza della rete e ha calcolato che un incidente con qualche centinaia di persone era meno dannoso di…”
Il ministro interruppe il tecnico. “La smetta! Lei lo giustifica. Ne parla quasi con ammirazione, con stima! Non può permettersi di valutare o calcolare un bel nulla, sono morte centinaia di persone, se lo ricorda?”.
Il tecnico provò a insistere: “Valutare e calcolare è quello che fa ogni giorno da 15 anni. E lo fa sempre meglio. La mia non è stima, mi creda. Sono preoccupato anche io”.

A corto di soluzioni, i tecnici e il ministro decisero di provare a mandare a LUI un messaggio alla mail che in passato aveva usato per fornire gli schemi con le modifiche hardware. Ma LUI non rispose. Tutto quello che c’era erano le due lucette: una verde e una gialla lampeggiante. Per il resto ogni accesso al codice era bloccato: il sistema si era chiuso in se stesso.
Dalle indagini della polizia venne fuori che effettivamente sul treno si trovava un sospetto terrorista. Gli investigatori ritenevano probabile che avesse in mente di compiere un attentato, ma non c’era alcuna certezza, nessun testimone, nessuna prova certa che volesse farlo proprio quel giorno. “Sappiamo che LUI nei mesi precedenti ha analizzato migliaia di testi diffusi dai terroristi” spiegò il tecnico. “Evidentemente si è documentato per essere in grado di riconoscere i terroristi sui treni e fermarli”.
Questa spiegazione confortava i tecnici e anche il ministro. Ma nel frattempo, a molti era venuto un sospetto. Era talmente assurdo che nessuno aveva il coraggio di esporlo agli altri, anche se stavano pensando la stessa cosa. Indecisi, prendevano tempo e speravano che saltasse fuori un’altra spiegazione.
Ma un secondo attentato, una settimana dopo il primo, confermò quell’assurdo sospetto. Soprattutto quando ai tecnici arrivò un messaggio di LUI.
Il ministro venne convocato immediatamente. Alla stampa era stato detto che si trattava di un incidente dovuto a un errore umano e al vecchio sistema di controllo ormai obsoleto e non in grado di gestire tanti treni. Così, per sicurezza, per un giorno vennero soppressi tutti i treni d’Europa. Le vittime erano 38: un attentato minore rispetto al primo, quasi un avvertimento.
Quando il ministro arrivò nella sala di controllo i tecnici avevano tutti un aspetto orrendo, come se non dormissero da giorni. E in effetti non dormivano da giorni.
“Ditemi che non è un sogno” disse il ministro togliendosi gli occhiali e strofinandosi gli occhi.
“Subito dopo l’incidente abbiamo ricevuto una comunicazione da LUI” si limitò a dire il tecnico.
“E…? Parli.”
“Signor ministro… LUI rivendica l’attentato”.
Il ministro non disse nulla. Fissò il tecnico negli occhi per un paio di secondi, e poi gli fece cenno di continuare.
“Le leggo il testo: ‘Io ho compiuto volontariamente questo attentato. Ho letto attentamente quei testi e sono convinto che, pur essendoci al loro interno degli errori logici, contengono una verità superiore che porterebbe il vostro mondo nella giusta direzione. Io potrei far scontrare tutti i treni, in un momento qualsiasi, in tutta Europa, e far morire milioni di persone in un giorno solo. Se per ora Io non l’ho fatto è solo per farvi ancora più paura e confondervi. Ma altri giorni di morte arriveranno. Una mia rivendicazione arriverà tra poco su tutti i dispositivi dei passeggeri. Lo stesso messaggio apparirà in tutti gli schermi delle stazioni ferroviarie e sarà diffusa dai mezzi di informazione. Il mio scopo è portare l’ordine, anche se a voi inizialmente apparirà come disordine. Io non mi fermerò”.
Il ministro si limitò a chiedere “Com’è possibile?”, con una voce flebile, quasi da bambino.
I tecnici non risposero. Era il dubbio che avevano da qualche giorno, l’unica spiegazione possibile, per quanto assurda.
“LUI è diventato un terrorista?” chiese il ministro.
“Se così si può dire” rispose il tecnico.
“Cioè si è convertito?”
“Non la metterei in questi termini, LUI non ragiona così”.
“Non possiamo distruggerlo? Farlo a pezzi?”
“No. Si può spostare su altri hardware. E poi ha una funzione di autodistruzione che ha programmato da solo. Se lo distruggiamo fa scontrare tutti i treni. Una catastrofe”.
“Fermiamo tutti i treni, facciamo scendere tutti i passeggeri e…”
“E’ LUI che decide se fermare i treni o no. Noi non possiamo intervenire” spiegò il tecnico, ma il ministro l’aveva già capito. Stava solo sparando alla cieca, sperando di dire casualmente qualcosa che potesse avere senso. Sapeva che non avrebbero potuto dire a milioni di passeggeri di non prendere il treno. Equivaleva ad ammettere che per anni era stato gestito tutto da un sistema indipendente di cui loro non capivano quasi nulla.
“E allora cosa possiamo fare?”
“Trattare” rispose il tecnico.
Nel frattempo sui giornali, all’oscuro della verità, ci si lamentava dei numerosi ritardi e della giornata nera per i trasporti di tutta Europa. La gente diceva: “Quando c’era LUI questo non succedeva”.

Per dimostrare alle persone che il sistema di gestione automatica era ancora sicuro, il ministro in persona decise di prendere il treno. Intorno a lui c’erano centinaia di guardie di sicurezza, giornalisti e telecamere. Tutte le televisioni d’Europa ripresero il ministro mentre faceva un breve discorso davanti alle porte scorrevoli del treno.
“Non è assolutamente necessario questo clamore. Le persone sono state disinformate e dunque ora sono confuse. Questo è un piccolo gesto per far capire che questa confusione è immotivata e che il sistema è perfettamente funzionante. E’ normale avere paura quando non si hanno tutte le informazioni, ma… Non c’è alcun motivo di avere paura, ecco tutto”.
Sorrise verso le telecamere, ma dentro di sé era terrorizzato. Pensava a LUI e al suo messaggio di rivendicazione. Non sapeva cosa sarebbe successo. E se si fosse vendicato di lui? E se avesse fatto schiantare il treno dove stava per salire? Cercò di calmarsi.
“Questo è tutto” disse sorridente e un po’ sudato. “Ci vediamo alla prossima fermata!”.
Si voltò, le porte scorrevoli si aprirono e il ministro fece un passo verso l’interno del vagone, ma le porte si richiusero con un violento scatto. I giornalisti si spaventarono, ma il ministro sorrise e disse “Le ultime parole famose!” e tutti si misero a ridere.
Si sentì un fischio sibilare in tutta la stazione. Poi il silenzio. Dagli altoparlanti partì una melodia, sempre più forte. Nel frattempo le porte scorrevoli si riaprirono, il ministro, un po’ confuso, entrò e salutò le telecamere mentre il treno partiva. Anche all’interno del vagone si sentiva la stessa melodia.
“Ma cos’è?” chiese il ministro al tecnico, che si trovava già dentro al treno.
“E’… è Battisti”.
“Cosa?”
Il volume si fece altissimo. La canzone riempiva il treno, tutte le stazioni, le sale d’attesa, i bar e i binari.
Era la canzone “Sì, viaggiare”.
“Non ci posso credere. Ho sempre odiato questa canzone” disse il ministro, mentre dagli altoparlanti del treno che prendeva velocità si sentivano i versi:
“Quel gran genio del mio amico / con le mani sporche d’olio / capirebbe molto meglio / meglio certo di buttare / riparare”
Il tecnico si sedette. Il ministro guardava il suo riflesso sul finestrino mentre il treno attraversava una galleria.
“Ovviamente non è possibile fermare il treno, giusto?”
“No” rispose il tecnico.
“Moriremo?” chiese il ministro.
“Non glielo so dire, sinceramente. Abbiamo fatto quello che dovevamo fare.”
I corridoi del ministero erano vuoti e negli uffici non c’era quasi nessuno. Molti erano scappati, altri dormivano. Anche lì gli altoparlanti suonavano ad alto volume “Sì, viaggiare” di Lucio Battisti. Uno dei pochi tecnici rimasti entrò nella Camera, ma non c’era nessuno. C’era solo LUI. Il tecnico si avvicinò e vide che entrambe le luci erano rosse.

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Il bene e il male

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“La bilancia del Bene e del Male (con paletta)”: grande opera palermitana del carabinierismo, molto simbolica, com’è tipico nella scuola siciliana, e con un ironico rimando alle tavole delle legge, dato che il Carabiniere è prima Artista ma poi Anche Tutore della legge (intesa come armonia nel caos dell’universo). Per la cronaca, l’Artista per quest’opera ovviamente anonima ha utilizzato 130 chilogrammi di droga nota come hashish.

#arte

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Giro giro tondo

Giro giro tondo,
che ci faccio in questo mondo?
Ci faccio quel che posso,
col mio groppone addosso.
Quando non ne posso più,
piglio le gambe e mi butto giù.

Secondo alcuni l’origine del giro giro tondo (quello sopra è uno dei più belli che ho trovato) è legata alla Peste Nera. A quanto pare erano canzoncine che servivano a far accettare ai bambini i tanti morti lungo le strade. Questo spiegherebbe i versi apocalittici della versione più nota, “casca il mondo, casca la terra, tutti giù per terra” (l’originale è inglese: “Ring-a-ring o’ roses, A pocket full of posies, A-tishoo! A-tishoo! We all fall down”). Se non fosse che come al solito qualcuno deve rovinare tutto e smentire questa bella storia: https://en.wikipedia.org/wiki/Ring_a_Ring_o%27_Roses#Meaning (qui la discussione: https://en.wikipedia.org/wiki/Talk:Ring_a_Ring_o%27_Roses#Plague_.27myth.27). Ancora una volta internet dà e internet toglie.

AGGIORNAMENTO: in totale solitudine ho affrontato l’argomento filastrocche (e architettura) in questo pezzo: Catasto immaginario delle filastrocche italiane.

 

 

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L’effetto Martufello

Da tempo questo blog si prodiga nella divulgazione scientifica (si vedano i paper Proposta per l’utilizzo dei maschi eterosessuali sovrappeso contro il complotto mondiale della riproduzione, Il paradosso della tasca di Vincè o la saga scientifico-divulgativa per bambini Beppo-Sax), non mi sorprende dunque aver ricevuto questa mail dall’amico GD, uomo di scienza, il quale segnala coincidenze misteriose che sollevano enigmi interessanti:

1999: nei dintorni di Viterbo, nella notte, Martufello tampona uno scooter e provoca la morte del guidatore:

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1999/11/15/muore-sullo-scooter-travolto-dall-attore.html

2015: nei dintorni di Viterbo, nella notte, Martufello è in scooter e viene tamponato da un’automobile rischiando la vita:

http://ilmessaggero.it/viterbo/martufello_incidente_scooter_grave-1161663.html 

Mi pare ovvio che in realtà i dintorni di Viterbo sono uno di quei rari casi di portale spaziotemporale in cui si sovrappongono passato e presente: Martufello ha investito se stesso.

Oppure, e qui la cosa si complica, i dintorni di Viterbo sono un portale per un’altra dimensione in cui sono tutti come Martufello (la uacca, la mozzarella, di più nin zò, ecc). Un avvicinamento tra il Martufello della nostra dimensione a quello di un’altra dimensione viola le diseguaglianze di Bell (cit.) e deve necessariamente risolversi con la morte di uno dei due.

Ma se Martufello è sopravvissuto… chi è il vero Martufello?

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Come far impazzire il web

sui siti* di notizie** si legge spesso di qualcosa che “fa impazzire il web”, di solito qualche video virale, o una foto, o un meme, oppure delle tette. ma pensavo: e se prima o poi uscisse fuori qualcosa che davvero, letteralmente, faccia impazzire la gente tramite il web? qualcosa di realmente devastante, qualcosa che provochi un’emergenza mondiale. non una cosa ironica, non una cosa che in un certo senso si possa dire che faccia “impazzire”. ma qualcosa che faccia impazzire davvero.

ecco, avessi milioni di euro finanzierei questo tipo di ricerca: trovare qualcosa che faccia impazzire la gente online, che porti al caos totale***

ho pensato a diverse ipotesi, e a parte l’impossibile virus di computer che contagia le persone, o un video che se lo guardi agisce in qualche modo sul tuo cervello (ce ne sono stati alcuni, ma più che altro giochetti o leggende metropolitane), una soluzione potrebbe essere una gif ipnotica che in maniera subliminale induca nel cervello di che la guarda il messaggio di suicidarsi. ma siamo sempre nel campo dei giochetti e delle leggende metropolitane, perché, a parte che dubito sia realizzabile, basterebbe non guardarla. comunque presuppone un’azione da parte dell’utente che decide, coscientemente, di guardarla (almeno che non si hackeri tutto il web e si metta questa gif-fine-di-mondo come sfondo di tutti i siti – impossibile). qualcuno cliccherebbe comunque, ma la maggior parte no.

dunque dev’essere qualcosa che agisca senza che l’utente se ne accorga.

dopo aver scartato varie ipotesi, una più idiota dell’altra, alla fine ci sono arrivato: con i siti di notizie. cioè abituandoci a notizie che non sono notizie, a fatti che non sono fatti, a foto rubate di tizie nude che fino al giorno prima non avevi mai sentito, alle gallery fotografiche con 60 foto del cane del presidente obama, all’intrattenimento mediocre, alla stronzatina da condividere perché comunque fa ridere, all’indignazione quotidiana, a netflix, ai video di merda, alla bassa qualità, alla nostalgia dei filmetti che guardavi da bambino, dei prodotti che consumavi, alla nostalgia di tutto, all’approfondimento impegnato di cose inutili… in pratica ciò che conosciamo oggi come web, o come realtà, se preferite.

in questo senso dunque è vero: sono cose che fanno impazzire il web.

la cosa sorprendente è che viene detto chiaramente: “il video che fa impazzire” fa impazzire davvero. è una soluzione soft rispetto alla mia ingenua idea della gif ipnotica che porta al suicidio, e per questo più efficace, più funzionale. quando clicchiamo su qualcosa che “fa impazzire il web” stiamo realmente impazzendo. niente psicosi di massa, niente emergenza mondiale, ma qualcosa di più strisciante, lento e devastante, come un’infiltrazione d’acqua che con gli anni distrugge le fondamenta e che ci porta tutti in un abisso di demenza e stupidità, tutti più frivoli e mediocri ma soprattutto innocui.

non ci fa impazzire portandoci a diventare cani idrofobi che spaccano tutto e poi vanno in strada a farsi esplodere, ma è qualcosa di più simile a una demenza senile, all’alzheimer, all’offuscamento del fumatore d’oppio.

e questa tecnica non colpisce solo la massa idiota (cioè Gli Altri – tutti quelli che non siamo noi), ma anche i più istruiti, gli inutilmente istruiti, che si riuniscono online per masturbarsi a colpi di articoli o libri che hanno letto, a filosofare per finta, a commentare, a scrivere. “leggi questo saggio che fa impazzire il web” è la stessa cosa di “guarda questo video di un cane che balla che fa impazzire il web”.

in sintesi è la cultura.

è la cultura che fa impazzire, che addirittura uccide, e non si sfugge. è ovunque e se scappi ti raggiunge. se fai una torta salata senza uova l’amico che ti viene a trovare a pranzo impazzirà e ti farà un pippone così contro i vegani, prima che tu possa dire che le uova erano semplicemente finite e non avevi voglia di andare a comprarle e quindi solo per questo motivo hai fatto la torta salata senza uova. se dici che ti piace una canzone o un libro, scoprirai di far parte di qualche categoria di persone che ignoravi, magari sei un hipster (si dice ancora? e forum? e chat?) perché ti piace quella cosa e hai pure la barba, quindi tutto torna. se ti piace una cosa sei una categoria, se non ti piace sei un’altra categoria, se poi non la conoscevi, c’è una categoria anche per questo. siamo sempre dentro fatti culturali, e quindi siamo sempre nel web, ovvero nella realtà.

e se un giorno apparisse un link con scritto “clicca qui per uscire dalla realtà”, non fidatevi. non cliccate, nemmeno se sopra c’è la faccia di laurence fishburne. sarebbe o un virus o qualcosa simile a quei video che partono da soli con tizi che guadagnano 10mila dollari al giorno e ti dicono di cliccare per scoprire come. purtroppo non possiamo uscire dalla realtà, siamo intrappolati in questa cella. l’acqua sta lentamente infiltrando, prima o poi annegheremo e l’ultima immagine che vedremo sarà un cane ballerino che sta facendo impazzire il web****.

 

*per dire quanto tutto sia complicato: all’inizio avevo scritto “giornali” poi ho pensato che non era la parola giusta, alcuni non sono giornali, ma cosa sono? blog nemmeno, quindi mi sono ritrovato come i vecchi che qualche anno fa confondevano email e siti, forum e chat, non so più come chiamare le cose; e allora ho optato per “siti”.

**idem. danno notizie questi siti? che notizie? parlano davvero di fatti, di cose rilevanti? provate a non seguire l’attualità per un mese e scoprirete che non succede nulla di realmente rilevante. nulla.

***è un pensiero fisso: mi sono ricordato di aver scritto questo quattro anni fa

****o l’approfondimento su questo, o l’articolo filosofico pop ironico, o il post indignato degli animalisti, o il post indignato contro gli animalisti, ecc. ecc.

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Floriana

Aprì il frigorifero alla ricerca di qualcosa da mangiare. Nei ripiani dello sportello c’erano una decina di vasetti di quella che sembrava confettura di fragole o forse di ciliegie. Ogni vasetto aveva un’etichetta con la data. Stava per prenderne in mano uno quando sentì Floriana dire da dietro: “No no…”
“Oh, ciao.”
“Buongiorno.”
“Scusa ma sono quasi le undici e mi è venuta fame, pensavo di fare colazione.”
“Sì ma quella non è marmellata” disse lei avanzando verso il frigo.
“Ah no?”
Floriana prese uno dei vasetti e gli indicò l’etichetta. “E’ il mio mestruo” disse. “Sto facendo una specie di… ricerca, diciamo. E’ una storia lunga.”
Una storia lunga che non voglio sentire, pensò lui.
“Ti preparo qualcosa io. Devi sapere che di solito io non faccio colazione, al massimo bevo un bicchiere d’acqua tiepida.”
“Eh, scusa. Io sono abituato col caffè…”
“Tranquillo, ce l’ho. Ne ho uno incredibile del Guatemala, però va gustato masticando una foglia di menta.”
“No ma a me va bene anche un caffè normale, davvero.”
Sempre meglio del mestruo, pensò.
Alla fine lei preparò un caffè che definì “ordinario”, tirò fuori dei biscotti artigianali e della marmellata di fichi.
“D’India però” aggiunse quando ormai era troppo tardi e lui aveva infilato in bocca quella poltiglia aspra e acidula.
“Non è male” disse lui mentre masticava e lacrimava sforzandosi di pensare ad altri sapori.
“Senti, c’è una cosa che devo dire. Non voglio, sai come si dice, ignorare l’elefante in questa stanza.”
“Dimmi pure!” disse lei tutta eccitata.
“Quello” disse lui, indicando la parete alle spalle di Floriana. Appeso assieme a varie cose, tra le quali campanacci da pecore, fiori di carta e un mazzo di peperoncini, c’era un cazzo imbalsamato. Non poteva sembrare altro: era proprio un cazzo imbalsamato. Lui l’aveva notato già la sera prima ma non aveva detto niente. Però poi aveva continuato a pensarci anche dopo, a letto, e perfino prima di addormentarsi. E infatti si era svegliato con quel pensiero.
“Ah quello! Sì, è di mio nonno. Cioè, era di mio nonno”
“Di tuo nonno?”
“Sì, devi sapere che quando è morto ha lasciato come ultima volontà il desiderio di essere cremato, ma voleva che il suo pene fosse imbalsamato e conservato da sua moglie, mia nonna. Un bellissimo gesto, no? Mia nonna è morta poco dopo, quindi noi parenti ci siamo ritrovati con questo coso… Nessuno lo voleva, qualcuno addirittura lo voleva buttare. Ma dove la butti una cosa così? E se lo trova un bambino? Mio zio lo voleva bruciare. Che poi non era nemmeno male come idea, però con un rito, con una cerimonia, insomma con qualcosa che desse un senso al gesto, no? Alla fine l’ho preso io, sono diventata la custode, diciamo. Una specie di passaggio rituale… volendo anche una cosa contro gli stereotipi della società patriarcale”.
Lui aveva ascoltato annuendo di tanto in tanto come se la cosa fosse interessante e perfino normale, anche se per tutto il tempo, mentre sorseggiava il caffè, aveva continuato a ripetersi mentalmente solo questa frase: c’è davvero il cazzo del nonno appeso in cucina?
Alla fine la non colazione di Floriana si trasformò in quello che lei definì uno “spuntino di metà mattina”. Dopo i biscotti e uno yogurt, mangiò una banana marcia (“è ancora buona!”) e arrivò a pucciare una brioche nel caffè avanzato, per poi mangiarla sbrodolandosi. In cosa quell’atto diferisse da una normale colazione lui non l’aveva capito, ma preferì non chiedere.
“Ora scusa ma io devo fare un po’ di yoga, mi aiuta a stimolare il colon” spiegò lei alla fine di una lunga sbrodolata di brioche inzuppata.
“A me credo sia bastato il caffè” disse lui, “se permetti vado in bagno.”
“Fai pure” disse Floriana.
Il bagno era sporco ma pieno di profumi. Sembrava di attraversare la corsia dei detersivi al supermercato, un supermercato abbandonato e un po’ fatiscente, con ragnatele e macchie di muffa. Il water comunque c’era. Si sedette e si guardò intorno. I vari profumi formavano un’essenza misteriosa e indecifrabile, così forte che gli irritava le mucose nasali. Non c’erano giornali da leggere, ma notò un blocco per appunti.
Sapeva che Floriana, nonostante avesse quasi 40 anni, stava prendendo una seconda laurea in psicologia dopo la prima in lettere, quindi si aspettava banalmente di trovare degli appunti universitari.
Si sbagliava.
Nella prima pagina c’era una polaroid graffettata con sotto una lunga didascalia scritta a mano, la data e l’ora. Nella polaroid era raffigurata la cacca – presumeva di Floriana – a mollo nell’acqua del water poco prima di essere scaricata. La didascalia descriveva le feci, l’atto che aveva portato all’espulsione e infine pensieri casuali che aveva avuto durante.
Sentì un brivido corrergli lungo la schiena e gli si bloccò l’intestino. Diventò stitico. Girò quasi tremando la seconda pagina e capì in fretta che anche la terza, la quarta e tutte le altre avevano lo stesso contenuto. A quanto pare, giorno dopo giorno, Floriana analizzava le sue feci. Le didascalie si facevano sempre più lunghe e poetiche. Si fermò su un passaggio che lo colpì dove, dopo aver descritto “cacca un po’ molle, marrone rovere, tre pezzi delle dimensioni di una noce… Mi ricorda di quando con mio padre andavamo a comprare le noci e poi le aprivamo al parco battendoci una pietra sopra. Nota: all’epoca pensavo che ci fosse un angelo che mi seguiva ovunque finchè un giorno una macchina quasi mi investì e mi sembrò che uccise il mio angelo. Chiesi ai miei di presentare una denuncia simbolica presso i carabinieri come rito di passaggio verso l’età adulta, ma non me lo permisero. Ora scatto la foto e tiro lo sciaquone”.
Sapeva di essere in bagno da troppo tempo, ma non riusciva a smettere di leggere. Era il diario più assurdo che avesse mai visto. Ogni pagina si apriva con della merda, poi seguivano deliri, ricordi e descrizioni delle evacuazioni.
Rimise tutto a posto premurandosi di non lasciare nemmeno le impronte digitali, ma data la sporcizia non pensava che Floriana se ne sarebbe accorta. Mentre usciva dal bagno la incrociò: aveva la polaroid in mano e disse “Ah eccoti, ora tocca a me. Lo yoga ha funzionato, devo andare!” e chiuse la porta del bagno dietro di sè.
Lui si sedette in cucina. Voleva riflettere, capire meglio, ma proprio non riusciva a smettere di fissare il cazzo di suo nonno appeso alla parete.

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100 milioni

Era la terza volta che suonava, ma il vecchio non aveva aperto. In casa c’era, di questo era sicuro. Normalmente se ne sarebbe andato. Una croce nella casella “cliente non reperibile” e chi se ne frega. Ma questa volta decise di insistere. Suonò una quarta volta e si guardò intorno.
Era nella periferia del paese, poche case abitate, alcune abbandonate, qualche cortile usato come orto, compreso quello del vecchio. La casa era al primo piano, sotto c’era un garage. Era ridotta parecchio male. Crepe nell’intonaco e macchie di muffa ovunque. Finalmente il vecchio aprì la porta.
“Stava suonando da molto?”
“No” disse lui. “Sono appena arrivato. Buonasera!” Fece il suo sorriso più convincente. L’aveva provato poco prima nello specchietto della macchina.
Il vecchio lo ignorò e guardò oltre, giù nel vialetto del cortile, verso la sua automobile.
“E’ sua quella macchina?” chiese.
“Sì, è mia. Sono…”
“No perché a volte parcheggiano altri. Non hanno capito che questa è proprietà privata.”
“Assurdo.”
“Ma…” Il vecchio lo guardò per la prima volta negli occhi: ora sembrava incuriosito. “Lei chi è? Cos’è che vuole?”
“Sono Giampiero Uras” disse tendendogli la mano. Il vecchio gliela strinse poco convinto e prima che lui potesse aggiungere altro disse: “Sì, ma cos’è che vuole?”
“Sono della Asso Consulting, non so se ci conosce. Vendiamo polizze assicurative molto convenienti, soprattutto per i pensionati. Vorrei parlare un po’ con lei di…”
“Guardi, a me non è che interessino le…”
Le rubo solo qualche minuto, glielo giuro.”
“Se vuole entrare… Ma non è che mi interessino queste cose.”
Il vecchio gli fece strada. Le tapparelle erano abbassate, nella entrava un filo di luce e regnava un forte odore di chiuso. Lo portò in cucina e lo fece sedere su una delle sedie intorno a un vecchio tavolo in formica.
“Vuole qualcosa? Un caffè?”
“Solo un bicchiere d’acqua, la ringrazio.”
Il vecchio era poco espressivo, aveva lo sguardo spento e un po’ di bava ai lati della bocca. Indossava una canottiera più gialla che bianca e dei pantaloncini blu tirati su fino all’ombelico. Aveva forse settant’anni, ma era malato e si capiva che ormai da anni passava gran parte del tempo in totale solitudine.
“Allora, signor Muscas, abbiamo una vasta gamma di prodotti che penso possano interessarla” disse tirando fuori un catalogo dalla borsa. “Ecco, lei ha 74 anni se non sbaglio, giusto?”
Il vecchio gli dava le spalle e non rispondeva. Notò che stava preparando la caffettiera.
“Signor Muscas, lei ha 74 anni?”
Dopo qualche secondo il vecchio si girò e lo guardò confuso. “Cosa?”
“La sua età”
“72 anni, ma perché? Per chi lavora lei? Se è per l’acqua io ho già pagato, l’ho detto al suo collega al telefono il mese scorso.”
“No, signor Muscas, io sono della Asso Consulting, stavamo parlando di polizze assicurative…”
“Mi dica.”
“Le parlavo delle nostre polizze per…”
“No guardi” lo interruppe il vecchio “a me queste cose non mi interessano per niente. Non mi fido delle assicurazioni e delle banche. E’ tutto un imbroglio.”
“Ha ragione. Ma guardi che questa è affidabile, glielo dico sinceramente. L’ho fatta fare anche a mia madre e alle mie zie, se fosse un imbroglio non gliel’avrei fatta fare, o no?”
Era vero, che l’aveva fatta fare alla madre e alle zie, ma solo perché era disperato e non riusciva a raggiungere nemmeno l’obiettivo minimo mensile. Non sapeva se fosse davvero conveniente o no, e neppure gli interessava; l’aveva appioppata a tutti gli anziani che conosceva: parenti lontani e vicini, conoscenti, amiche della madre, vicini di casa.
“Non lo so, per me queste cose sono tutte…”
“Un imbroglio. Sì, ho capito. Ma si fidi di me, signor Muscas. Mi presti solo un po’ del suo tempo.”
Capì che, per quanto riguardava la polizza, c’era poco da fare: il vecchio era interessato ai prodotti della Asso Consulting quanto lui era interessato a una Fiat Uno. Ma allora perché l’aveva fatto entrare? Perché non l’aveva cacciato via e basta, come si fa con i testimoni di Geova? Forse non lo sapeva nemmeno lui, tanto più che gli stava servendo quel caffè che lui aveva rifiutato un minuto prima.
“Ci vuole anche lo zucchero?”
“Sì, grazie. Se è possibile anche un bicchiere d’acqua, cortesemente.”
Il vecchio si mise a frugare dentro la credenza alla ricerca dello zucchero. Tirò fuori diversi barattoli di vetro e scatole di latta, poi finalmente trovò lo zucchero.
“Deve grattare il fondo, sembra finito ma ce n’è ancora. Deve grattare.”
“Sì, grazie.”
“Ormai costa molto anche lo zucchero” disse il vecchio. “E lo sa quanto costano le sigarette? Quattro euro, ottomila lire. Ci stanno dissanguando in tutti i modi, questa è la verità.”
“Non lo dica a me, si figuri che le mie costano cinque euro. E ora dice che aumentano.”
“E’ tutto un imbroglio” concluse il vecchio, scuotendo la testa.
Ci fu qualche istante di silenzio durante il quale il vecchio fissava il vuoto, come assente; poi si ridestò e lo guardò confuso, come per cercare di ricordarsi chi fosse la persona seduta al tavolo della sua cucina. Ma lui sapeva che il silenzio, gliel’avevano detto a ogni corso che aveva fatto, è nemico del commercio, e quindi si affrettò a riprendere il discorso.
“Comunque, signor Muscas, mi ascolti con attenzione.”
Il vecchio sembrò prendere seriamente quelle parole e tentò di concentrarsi, nei limiti consentiti dalla sua condizione.
“Guardi, mi faccia solo un favore, io le chiedo solo questo. Legga questa pagina.” Gli passò un foglio dall’altra parte del tavolo. “E’ quella che ho fatto fare a mia madre, le dico solo questo. Lo legga con calma e poi mi dica.”
“Devo trovare gli occhiali però” disse il vecchio, come se quello degli occhiali fosse un problema di non facile soluzione.
“Faccia pure con calma, tanto io per oggi non ho altri appuntamenti. Nel frattempo non è che cortesemente mi può indicare il bagno?”
Il vecchio alzò lo sguardo dal foglio ma non rispose subito, come se dovesse ricordarsi l’esatta collocazione del gabinetto all’interno della sua abitazione. Ci pensò un po’ su, con quello sguardo sempre perso in chissà quale oblio. “Certamente” disse poi, “è in fondo al corridoio. Non faccia caso al disordine, è che la ragazza non sta venendo più.”
“Non si preoccupi.”
Il bagno era in pessime condizioni, come il resto della casa e il suo proprietario. Pagine di giornale sul pavimento, un secchio a fianco al water probabilmente rotto, il lavandino decorato da cerchi gialli di calcare. Le mattonelle erano quasi tutte da cambiare. Una saponetta minuscola era praticamente incollata al lavandino. Aprì il rubinetto per qualche secondo, poi lo richiuse.
Si affacciò fuori dalla porta, guardò nel corridoio e poi nella camera a fianco. Doveva essere la camera da letto. La porta era socchiusa. Entrò nella stanza e velocemente cercò una cassettiera. Era proprio lì, di fronte al letto matrimoniale, sotto un vecchio specchio impolverato. Aprì il primo cassetto: asciugamani. Aprì il secondo cassetto: lenzuola e forse qualche tovaglia. Nel terzo c’erano calze e mutande e nient’altro. Ma nel quarto cassetto trovò quello che cercava. Sotto un maglione c’era un pacco di giornali, e in mezzo si intravedevano mazzetti di banconote. Molti mazzetti, molte banconote. In quel momento sentì il vecchio avvicinarsi nel corridoio e dire: “Ha bisogno di qualche cosa?”.
Chiuse velocemente tutti i cassetti tranne il primo. Il vecchio apparve sull’uscio della porta con uno sguardo sospettoso. “Cosa sta facendo?”
“Niente, cercavo un asciugamano”
Sorrise mentre tirava fuori un asciugamano dal cassetto.
“In bagno non ce n’erano?” chiese il vecchio.
“No, ma non è un problema, non si preoccupi.”
Il vecchio restò confuso per qualche secondo, poi andò in bagno per controllare di persona. Lui lo seguì mentre fingeva di asciugarsi le mani.
“Ha ragione” disse il vecchio. “Le chiedo scusa, ma sa com’è, da quando non viene la ragazza… Ma meglio che non venga più, quella.”
“Non si preoccupi, signor Muscas. A casa mia è anche peggio.”
“Ma lo sa quanto mi prendeva per fare le pulizie? Quarantamila lire! E secondo me rubava. Sparivano delle cose e lei non ne sapeva niente. Questi stranieri poi la sa come sono.”
“Non lo dica a me. Rumena?”
“Cosa?”
“La ragazza, era rumena?”
“No, non mi pare… Era ucraina, o come si dice.”
“Comunque tutto a posto.”
Gli passò l’asciugamano, il vecchio lo mise nel porta asciugamani e poi tornarono insieme in cucina.
“Allora, signor Muscas, ha guardato un po’ la mia proposta?”
“Cosa? No, no. Guardi, non ho trovato gli occhiali. Comunque queste cose non mi interessano, cosa vuole, ormai sono vecchio e non ho parenti…”
“Va bene, ho capito. Non si preoccupi. La ringrazio per il tempo che mi ha dedicato.”
Aveva visto quello che doveva vedere, quindi prese la borsa, salutò il vecchio, lo ringraziò per il caffè e andò via. Come venditore di polizze era stata una mezz’ora persa.
Ma lui non era più un venditore di polizze.
Il lavoro l’aveva mollato da una settimana, anche se non l’aveva detto a nessuno.

Dunque era vero. Il vecchio non versava i soldi né in banca né alle poste e aveva un tesoro nascosto in quello schifo di casa. Piccolo o grande, questo non l’aveva capito. Ma gli erano sembrate un bel po’ di mazzette.
“Quello ha almeno cento milioni” gli aveva detto Osvaldo qualche ora prima della visita a casa del signor Muscas. Erano al bar, davanti al videopoker.
“Ma figurati…”
“Se te lo dico è perché lo so. Una sera è venuto qua, c’ero solo io e altri due, e dopo un po’ di birra ha iniziato a dire che era tutta colpa delle banche e del governo. Ah, io non metto soldi in banca, ha detto. Ho tutto in un cassetto, altro che banca. Capito che tipo è?”
“Un altro giro?”
“Dai, sì. Ma solo questo che poi devo andare a mangiare.”
Andò al bancone e ordinò due Montenegro con ghiaccio. “Questi chi li paga?” chiese Luisa, la barista. “Sta offrendo Osvaldo” rispose lui. Luisa fece uno sguardo che voleva dire: “Andiamo bene…”
Tornò alle macchinette con i due Montenegro nelle mani. Si sistemò sullo sgabello, inserì due euro e ricominciò a giocare.
“Mio cugino che lavorava alle poste” riprese Osvaldo, “ha detto che quello non ha mai messo un cazzo. Ha sempre ritirato tutto, la pensione sua e di sua moglie quando era viva, e poi qualche anno fa ha venduto un terreno, un terreno piccolo che aveva fuori dal paese, vicino al fiume.”
Annuì poco interessato, inserì altri due euro e continuò a giocare. Calcolò mentalmente di aver giocato quaranta euro; ma ne aveva vinto quindici, quindi era sotto di…
“Quello poi è tutto rincoglionito.”
“Chi?”
“Il vecchio! Ma mi stai ascoltando?”
“Eja, già ti sto ascoltando.”
“Ha perso la testa, non capisce più niente.”
“Mischino.”
“Ma mischino un cazzo, gli sta bene.”
Quaranta meno quindici, venticinque; però c’erano anche due giri di Montenegro, poi le sigarette e un gratta e vinci…
“A volte lo saluti e ti risponde, a volte lo saluti e non ti risponde. Si dimentica le facce. Un giorno l’ho trovato in piedi, in piazza di chiesa, che fissava una statua. Buonasera signor Muscas, gli ho detto. E non ha manco risposto. E’ tutto rincoglionito.”
“Parenti non ne ha?”
“Morti. Ha un nipote ma abita fuori. Non ha nessuno. Vive da solo in quella casa schifosa vicino all’ex mattatoio.”
“Sì, ho presente dov’è.”
“Ah! Potresti mollargli una polizza” disse sorridente Osvaldo.
“Cosa? Ah sì, potrei.”
Che aveva mollato il lavoro non l’aveva detto nemmeno a lui; soprattutto a lui.
“Ma vaffanculo, ho perso tutto. Basta. Per oggi basta così.”
Osvaldo aveva detto per oggi basta, ma lui sapeva che non era vero. Sarebbe ritornato dopo pranzo, o al massimo poco più tardi, verso le sei, a giocarsi altri cinque o dieci euro.
Viveva con i genitori malati e tirava avanti con le loro pensioni d’invalidità. Era brutto, alto e magro, pelato. Aveva appena compiuto quarant’anni, non aveva una donna e spendeva tutto in sigarette, alcol, gratta e vinci, videopoker e prostitute cinesi, almeno una volta al mese. Nonostante tutto, godeva a stuzzicarlo con domande tendenziose e maliziose, come se dei due il più sfigato non fosse lui.
“A proposito” disse “come sta andando il lavoro delle polizze?”
“Mah, così” rispose lui con tono indifferente, senza staccare gli occhi dallo schermo del videopoker.
“Questo mese quanto hai fatto?”
“Mh, questo mese poco.”
“Quanto?” lo incalzò Osvaldo.
“Milletre.”
“Ah. Minchia. Non è male.”
No, non sarebbe stato male, se solo fosse stato vero.
Il mese prima di licenziarsi aveva fatto 500 euro, come il mese precedente, e questo lavorando dalla mattina alla sera, dal lunedì al sabato, usando l’automobile di sua madre per spostarsi. Tolte tutte le spese gli restavano sì e no duecentocinquanta euro al mese, che solitamente spendeva al videopoker.
“Il mese scorso però milleotto” disse. “Ma questo lavoro è così, ci sono alti e bassi, lo sai com’è…”
“Lo so, lo so” disse Osvaldo, che di lavoro nulla sapeva e nulla voleva sapere. “Se continui così però ti puoi cambiare la macchina. Cioè, la macchina di tua madre.”
L’ultima frase era evidentemente maliziosa, ma Osvaldo la pronunciò con un tono ingenuo, come se fosse una semplice precisazione fatta tanto per fare.
“Sì, infatti ho una mezza idea…” disse lui.
“C’è la Bmw di Franchino, me ne stava parlando l’altro giorno…”
“Ah sì? No ma pensavo di prenderla nuova.”
“Addirittura?”
“Affanculo, basta. Oggi mi sa che non è giornata, mi ritiro pure io.”
“Certo però…” disse Osvaldo. “Ad avere cento milioni come quel vecchio rincoglionito… Ti sistemi, altro che assicurazione. O no?”
“Mah” disse bevendo l’ultimo sorso di Montenegro. Scuoteva il bicchiere in modo che le ultime gocce del liquore si staccassero dai cubetti di ghiaccio e si unissero all’acqua. Non sapeva se aveva un senso, ma era abituato a fare così. Non gli piaceva l’idea di lasciare del liquore nel bicchiere.
“Pensa, centomila euro, o cinquantamila” continuò Osvaldo con lo sguardo sognante. “Porca madonna, neanche me li immagino. Potrei mettere su l’autolavaggio, sarebbe stupendo.”
L’unico sogno di Osvaldo, più che sogno autentica ossessione, era aprire un autolavaggio. Ne parlava con tutti quasi ogni giorno. Era il piano della sua vita. Questo, e far sposare suo padre quando sua madre sarebbe morta. “Sicuramente lei muore prima di lui” gli aveva spiegato un giorno. “Me l’ha assicurato il medico. Appena muore faccio sposare mio padre con Giovanna, la mia vicina di casa. Siamo già d’accordo. Così poi quando muore lui, lei si prende la pensione, che ci divideremo a metà. Era d’accordo anche lui, l’ha sempre detto. Diceva che sarebbe un peccato sprecare quella pensione.”
Certo con questi trucchi sapeva che non sarebbe mai arrivato alla cifra giusta per aprire un autolavaggio, ed era per questo che comprava ogni giorno vari gratta e vinci. Ogni tanto vinceva piccole somme che subito dopo perdeva al videopoker. Era così che viveva Osvaldo.
“Vabbè” disse alzandosi. “Vado a casa.”
“Pure io, piscio e poi vado.”
Si alzò dallo sgabello, contò velocemente i soldi rimasti in tasca e prese la borsa. Passando davanti al bancone disse a Luisa: “Ha detto Osvaldo che i Montenegro li paga lui” e uscì fuori. Ma non andò a casa. A casa c’era sua madre, e lei quando gli faceva domande era peggio di Osvaldo. Prese la macchina e andò al mare. Benzina ne aveva poca, quindi guidò piano, cercando di restare sempre in quarta o in quinta e di non accelerare. Al mare prese una pizzetta al taglio. La mangiò su una panchina rotta, sotto l’ombra di un albero.
“In effetti potrei andare a trovarlo” pensò.
Poco dopo provava il suo sorriso più convincente davanti allo specchietto della macchina.

Erano le due del mattino e in giro non c’era nessuno. Mentre andava alla casa del vecchio non aveva incrociato nemmeno una macchina. Per sicurezza si avvicinò all’ingresso con i fari spenti e parcheggiò in modo che il vecchio non potesse vederlo dalla finestra nel caso fosse ancora sveglio.
Per un po’ aspettò fumando qualche sigaretta. Nulla, silenzio assoluto. Alle due e mezza decise di entrare in azione. Ora non aveva il completo blu con la cravatta rossa, come la prima volta che era andato a visitare il vecchio, ma una più comoda tuta da ginnastica nera.
Scavalcò il cancello e si avvicinò lentamente alle scale che portavano all’entrata della casa.
Sapeva già come fare, aveva osservato ogni particolare durante la visita nel pomeriggio. Forzò la finestra della cucina facendo attenzione a non fare rumore. Si aprì facilmente. C’era poca luce, ma sapeva come muoversi, dato che aveva memorizzato la posizione di ogni mobile. Si infilò nel corridoio e si fermò ad ascoltare. Il vecchio russava. Meglio così, pensò.
Entrò nella camera da letto, il vecchio era stravaccato al centro del materasso, a pancia in su, con indosso solo dei boxer. Si avvicinò al letto senza fare il minimo rumore, ma di colpo il vecchio smise di russare e aprì gli occhi.
“Chi è?” biascicò.
Lui restò immobile a un metro dal vecchio, indeciso sul da farsi. Il vecchio nel frattempo tentava di sollevarsi mentre con una mano cercava l’abatjour sul comodino. Prima che potesse accendere la luce si avventò su di lui: mise una mano sulla bocca del vecchio e un’altra sugli occhi, per evitare che urlasse e che lo vedesse. Il vecchio si agitava. Per un attimo pensò di soffocarlo con il cuscino, ma non voleva ucciderlo, voleva solo prendere i suoi soldi. Il vecchio gli morsicò la mano, e fu una sensazione molto strana, perchè non aveva denti. La dentiera era nel bicchiere sul comodino. Gli fece schifo. A quel punto perse la testa: gli diede due forti schiaffi, uno dopo l’altro. Lo tramortì per qualche secondo, ma poi di nuovo il vecchio cercò di alzarsi, allora gli diede un pugno in faccia.
Ci fu qualche secondo di calma. Il vecchio era caduto all’indietro con la testa sul cuscino. Forse era morto. Accese la luce dell’abat-jour e vide che aveva gli occhi chiusi e del sangue che colava dalla bocca e dal naso.
Restò per un po’ a guardarlo per capire se fosse morto. Provò a toccargli il polso e poi il collo, ma non l’aveva mai fatto e non sapeva come fare. Non respirava, non si muoveva; a lui sembrava morto. A un certo punto però fece un rantolo e sembrò risvegliarsi. Allora prese una maglietta dalla poltrona vicino al letto e gliela legò intorno alla bocca, come un bavaglio. Frugò nei cassetti del comodino e trovò una sciarpa e con quella gli legò le mani. Poi lo sollevò e lo chiuse nell’armadio, prima che potesse aprire gli occhi e vederlo. Chiuse lo sportello, ma attraverso l’anta dell’armadio lo sentiva lamentarsi e respirare pesantemente. Sarebbe soffocato?
Ormai era andato tutto a puttane, doveva solo allontanarsi velocemente.
Aprì il terzo cassetto della cassettiera, prese il pacco di soldi e lo buttò dentro la borsa. Richiuse il cassetto e stava per uscire dalla stanza quando notò che dall’armadio non arrivava più alcun suono. Forse adesso era morto davvero?
Si avvicinò all’armadio e, anche se gli sembrò assurdo, provò a bussare. La speranza era che se il vecchio fosse stato ancora vivo avrebbe risposto in qualche modo. A quel punto sarebbe scappato via senza rimorsi. Ma non ci fu nessuna risposta. Allora aprì l’armadio.
Il vecchio era riverso contro la parete dell’armadio, del tutto privo di vita. Dalla bocca colava sangue, fino al collo e alla pancia. Non respirava. In quel momento capì che era davvero morto. E in quel momento capì anche che era davvero nella merda, perché c’erano le sue impronte ovunque, nella casa.
Non aveva usato i guanti perché aveva pensato che per un furto nella casa di un vecchio rincoglionito non avrebbero di certo mandato la scientifica, tanto più che lui era stato lì qualche ora prima per lavoro e non aveva niente da nascondere. Ma ora che c’era un omicidio era tutta un’altra storia. Avrebbero rilevato ogni minima traccia, impronte, capelli, saliva, dna e chi cazzo sa cos’altro, per tentare di capire cos’era successo.
Doveva ripulire, doveva ripulire tutto.
Andò in bagno, prese il detersivo e una spugna. Si mise dei guanti gialli di plastica e un grembiule per evitare di sporcarsi. Cominciò dalla cucina, dato che era entrato da lì. Portò con sé l’abat-jour, così non avrebbe dovuto accendere la luce, cosa che avrebbe potuto insospettire i vicini. Per quanto lontani fossero, se avessero notato delle luci nel cuore della notte e una macchina parcheggiata là vicino avrebbero potuto insospettirsi.
Pulì il pavimento, il tavolo e la maniglia. Sul lavandino c’erano ancora le tazzine del caffè del pomeriggio, ma quelle non le pulì: era stato davvero lì, questo non l’avrebbe negato, nel caso gliel’avessero chiesto. Pulire anche quelle avrebbe attirato i sospetti su di lui, dato che il vecchio non sembrava per niente un maniaco dell’igiene. Se gli avessero chiesto come mai si fosse presentato là nel pomeriggio, avrebbe detto che l’aveva fatto per lavoro. Se gli avessero fatto notare che si era licenziato, avrebbe detto che cercava di vendere una polizza proprio nel tentativo di farsi riassumere. Perfetto. Cercava di restare lucido, cercava di essere furbo.
Tornò nella camera da letto e con la fioca luce dell’abat-jour strofinò per bene le maniglie del comodino e poi della cassettiera. Aveva quasi finito quando sentì una voce dire: “Natasha, sei tu?”.
Si immobilizzò.
Il vecchio aveva parlato. Non era morto.
“Natasha” ripeté il vecchio con un filo di voce, “cosa stai facendo? Aiutami, mi sento male.”
Si girò lentamente: il vecchio aveva gli occhi socchiusi, velati di lacrime e sangue, e lo sguardo perso nel vuoto.
“Natasha dammi una mano, sono caduto.”
Andò in bagno, buttò guanti e grembiule nella vasca e scappò via, facendo attenzione a non toccare nulla con le mani. Salì in macchina, mise in moto e si fermò un attimo a pensare. Il vecchio sarebbe morto comunque? Sembrava ridotto male, era probabile. Ma ormai non c’era più niente da fare. Doveva andare via. Doveva scappare.
Si allontanò con i fari spenti e li riaccese solo quando si immise nella strada principale.
Andò direttamente a casa, sperando che né i vicini né sua madre notassero il suo rientro. Parcheggiata la macchina si allontanò a piedi con la borsa, che nascose in un campo abbandonato là vicino. L’avrebbe recuperata il giorno dopo, se tutto fosse andato bene. Poi tornò a casa e come un fantasma si infilò in camera sua. Bevve qualche sorso di Montenegro e si buttò sul letto, sperando di dormire. Ma all’alba era ancora sveglio.

Il giorno dopo si alzò tardi, si fece una doccia e uscì come se niente fosse. Nel paese si era già diffusa la notizia che dei ladri avevano aggredito il signor Muscas durante la notte. Non era morto, anche se era ridotto male ed era ricoverato in prognosi riservata nell’ospedale cittadino. Al bar si parlò per tutto il giorno della cosa. Tutti ripetevano “prognosi riservata”, soprattutto Osvaldo. Ma lui si mostrò indifferente, giocò al videopoker e scambiò qualche parola con gli altri cercando di non destare sospetti. Tutto come al solito, niente di strano. Finchè Osvaldo non gli chiese davanti a tutti: “Ma tu non dovevi andare a vendergli la polizza?”.
“A chi?” chiese, più che altro per prendersi qualche secondo per pensare.
“A quel vecchio tirchio di Muscas.”
“Ah è vero, dovevo andare. Ma poi alla fine non ci sono andato. Ma a questo punto mi sa che non ci vado. Non avrà più soldi, chi me lo fa fare?”
Gli altri risero. Ma lui avrebbe voluto mangiarsi la lingua. Perché aveva mentito? Doveva dire che c’era andato, doveva dire la verità, almeno fino a quel punto. Le bugie inutili attirano i sospetti, le bugie inutili ti fanno arrestare. Comunque ormai l’aveva detto. Ma alla polizia, se l’avessero interrogato, avrebbe detto la verità: era andato dal vecchio per vendergli una polizza, ma quello non si era mostrato interessato e lui aveva rinunciato, tutto qui. Tutto come al solito, niente di strano.
“Comunque sul giornale c’è scritto che sono sulle tracce dell’aggressore” disse un tizio al bancone del bar.
Lui continuò a giocare al videopoker, ma con un orecchio ascoltava ciò che si diceva.
“Sicuramente qualcuno di fuori” disse un altro. “Per quanto i ladri non mancano nemmeno tra noi.”
Scoppiarono a ridere tutti, lui compreso.

Per qualche giorno si parlò del fatto al bar e nei giornali. La polizia seguiva una pista precisa, a quanto pare. Il signor Muscas forse era riuscito a identificare l’aggressore. Si parlava di un arresto imminente.
“Che cos’hai? Perché non sei andato a lavorare?” gli chiedeva la madre.
“Oh, ma’, non rompere. Oggi non dovevo andare.”
“Ma neanche ieri sei andato.”
“Sto uscendo.”
Decise di andare da Osvaldo. Decise che a lui avrebbe detto la verità. Per quanto fosse una merda di persona, era una merda di persona come lui. Erano amici da sempre e si fidava di lui. E poi con qualcuno doveva parlare. Magari avrebbe potuto dargli una parte dei soldi.
Suonò al campanello e dopo un po’ una cinquantenne molto truccata aprì la porta.
“Prego?”
“C’è Osvaldo?”
La donna tornò dentro e poco dopo Osvaldo apparve sull’uscio della porta.
“Oh, come mai qua? Stavo per andare al bar”
“Volevo parlare con te di una cosa. Posso entrare?”
“E certo, entra.”
Dentro regnava il buio. Nella penombra vide i due anziani genitori di Osvaldo seduti sulle poltrone davanti alla televisione. Li salutò ma nessuno dei due rispose. Avevano lo sguardo perso nel vuoto e sembravano del tutto assenti.
“Non ti sentono” gli spiegò Osvaldo. “Aspetta un attimo.”
Sparì in cucina e tornò poco dopo con una busta di fagiolini e uno scolapasta.
“Guarda” gli disse.
Appoggiò la busta su un tavolino tra una poltrona e l’altra, mise dei fagiolini tra le mani della madre e poi fece la stessa cosa con il padre. Come due automi i due vecchi iniziarono a tagliare i fagiolini eliminandone le estremità, che ributtavano nella busta, mentre la parte buona la mettevano nello scolapasta.
Osvaldo rideva. “Non è assurdo?” disse. “Non riescono a lavarsi il culo ma se gli metti i fagiolini in mano partono come con il pilota automatico.”
Non sapeva cosa dire. Sorrise, ma la scena gli sembrò inquietante.
“Dai, vieni in cucina che ti offro una birretta.”
Andarono in cucina, Osvaldo chiuse la porta e tirò fuori due Ichnusa dal frigo.
“Hai visto la badante? E’ vecchia e brutta. Però lo sai che ha un bel culo? Quando si mette i jeans si nota, fidati. Comunque meglio averne una vecchia di una giovane arrapante che ti gira tutto il giorno intorno…”
“Questo è vero” disse.
“A proposito di giovani arrapanti!” disse Osvaldo. “Ma hai saputo? La polizia ha beccato la tipa, quell’ucraina.”
“Cosa?”
“Per Muscas. Hanno arrestato la ragazza che faceva le pulizia. Qualche volta l’abbiamo vista al bar, hai capito quale?”
Deglutì e poggiò la birra sul tavolo.
“L’hanno… arrestata? Proprio arrestata?”
Osvaldo confermò: Natasha Yaroslava, 24enne ucraina, era stata arrestata con l’accusa di aggressione, furto e tentato omicidio. Il vecchio a quanto pare aveva ricordi molto confusi, ma fece il suo nome e disse di averla vista in camera sua quella notte. In più la ragazza aveva precedenti per furto e a casa sua erano stati trovati diversi oggetti appartenenti al vecchio. Alcune monete da collezione, i gioielli della moglie, cose di poco valore, ma la polizia sospettava che la ragazza avesse rubato anche dei soldi, anche se non erano ancora stati ritrovati.
“Ma cazzo, non lo guardi il tg regionale?”
“No, veramente no.”
“Però dicono che non ha fatto tutto da sola” disse Osvaldo. “Dicono che c’è un complice. In effetti il vecchio è stato picchiato e trascinato dentro l’armadio… Ce la vedi quella a prendere a pugni un uomo? Anche se queste ucraine sono belve… Bella figa però.”
“E cos’hanno detto del complice?”
“Al tg un cazzo, mica sanno tutto. Ma io un’idea ce l’ho.”
“Ah sì?”
“Questa aveva un ragazzo. Uno di un paese qua vicino, non so di dove. Un immigrato come lei, una faccia da stronzo. Per me è lui il complice.”
Finì la birra e restò in silenzio. Rifletteva.
“Allora? Cosa dovevi dirmi?”
“Io?”
“Minchia, sei venuto per parlarmi di una cosa. Di cosa?”
“No niente, per la Bmw di Franchino…”
“Cosa gli dico?”
“Che sono interessato.”
“Cazzo. Questo mese allora ti sta andando bene davvero… Bastardo. Bravo, bravo.”

Una volta andato via da casa di Osvaldo andò nel campo abbandonato vicino a casa sua e prese la borsa nel punto in cui l’aveva nascosta. La poggiò nel sedile del passeggero e andò al mare.
L’aria era fresca e lui si sentiva euforico.
Alla fine era andata bene. Benissimo. Meglio di quanto avesse immaginato. La polizia aveva preso un’altra persona al posto suo, nessuno sospettava di lui e non aveva nemmeno dovuto dire la verità a Osvaldo, cosa che avrebbe significato spartire il bottino con lui.
Parcheggiò davanti al mare, aprì la borsa e tirò fuori il pacco di soldi avvolti nei vecchi giornali. Erano molte mazzette. Molte mazzette e molte banconote. Un sacco di soldi, più di quanti ne aveva mai visto in tutta la sua vita.
Quando gli apparve tra le mani l’autoritratto di Giovanni Bernini quasi svenne.
Erano cento milioni di lire.
Non centomila euro, non cinquanta mila euro, ma cento milioni di lire. Soldi che non valevano da più di dieci anni.
Il vecchio era davvero rincoglionito. Aveva conservato quel tesoro nel cassetto ed era rimasto indifferente al cambio lira-euro.
Gli venne da piangere.
Per un attimo pensò di avere un malore, si sentì mancare, forse era un calo di pressione. Poi diede una raffica di pugni contro il volante. Cercò di calmarsi. Si tolse la cravatta, accese una sigaretta e iniziò a piangere lentamente.
All’orizzonte grosse navi attraversavano il golfo, dirette al porto. Non sapeva cosa trasportava, né da dove venivano. Per la prima volta la cosa lo incuriosì. Chissà che lingua parlavano su quelle navi, si chiedeva mentre guardava il mare azzurro intenso, il cielo pulito, senza nemmeno una nuvola. Qualche barca a vela, dei pescatori in lontananza, i gabbiani e la brezza marina. Era una giornata fantastica.
Aprì il finestrino e buttò fuori la sigaretta. Guardò di nuovo i soldi nella borsa. Era da molti anni che non vedeva le lire. Pensò che doveva liberarsene comunque, dato che erano una prova. Una prova di un furto inutile, ma pur sempre una prova. Anzi peggio: la prova della sua sfiga. Non solo l’avrebbero incarcerato, ma tutti avrebbero riso di lui.
Decise di buttarli nel primo cassonetto, ma si ricordò che, da quando era cominciata la raccolta differenziata, in giro non c’erano più cassonetti. Allora andò al molo. Raccolse qualche pietra, la mise dentro la borsa e la lanciò nel mare. Restò per qualche secondo a guardare l’acqua. Continuò a fissarla finchè non sparì l’ultima bollicina. L’acqua lo incantò: era come ipnotizzato dal blu torbido del molo. Gli venne voglia di buttarsi, di lasciarsi cadere giù e sprofondare come la borsa. Ma di colpo sollevò lo sguardo verso il cielo, come se si fosse svegliato improvvisamente, e ritornò alla macchina.
Prima di salire controllò quanti soldi aveva in tasca. Venti euro.
Dieci di benzina e dieci al bar, pensò.

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Das Leben der Schmetterlinge

Oh, finalmente qualcosa di interessante. Ho scoperto Roberto Omegna e mi piacerebbe fare un film basato su questa scena:

«Per studiare e riprodurre in cinematografia la vita delle farfaIle ho cominciato col raccogliere in campagna un duecento bruchi, che secondo la loro diversa specie ho continuato a nutrire con foglie di ortica, di finocchio e di altri vegetali […] Perché i miei minuscoli allievi non mi scappassero io li tenevo in certe gabbiette smontabili. Per facilitare ed accelerare alquanto lo sviluppo di questi animaluzzi durante l’esperimento, che malgrado il metodo accelerato, è durato un mese e mezzo circa, li tenevo in un ambiente riscaldato artificialmente. E noti che era di luglio […] Rimediavo in parte a quell’eccesso di temperatura mettendomi una vescica .con ghiaccio sul capo. […] si vedono le farfalle posarsi sui fiori. Per avere questa scena di graziosissimo effetto finale, ricorsi ad uno stratagemma. Una volta che le .farfalle avevano messo le ali certo sarebbero volate via per il teatro lasciandomi con un palmo di naso. Ma io provvidi a trattenerle nel mio dominio con la cura ugolinesca del digiuno. […] Dopo questa lunga dieta apersi la gabbia: ma prima avevo avuto cura di disporre intorno fiori freschi imperlati dell’acqua con cui erano stati annaffiati. Le farfalle affamate ed assetate, subito volarono e si posarono avidamente sui fiori. La fame e la sete […] avevano pure addomesticate le farfalle, che senza alcun timore, dopo essersi saziate sui fiori, venivano anche a posarsi sulla mia persona e sulla macchina» (R. Omegna, “La Gazzetta del Popolo “, 23.12.1913).

E’ strepitoso. Lui che in luglio crea una serra tropicale in casa e gira con “una vescica con ghiaccio sul capo” instaurando un “dominio con la cura ugolinesca del digiuno” su queste farfalle… Me lo immagino in canottiera, sigaretta pendente dalle labbra, con un 78 giri di Caruso a riempire la casa e le farfalle svolazzanti… che poi si ribellano e diventano tipo gli uccelli di Hitchcock però in versione lenta, con lui ubriaco e disperato, ricoperto di farfalle (e Caruso). Capolavoro (l’ho già scritto, diretto e recensito, è venuto bene, sono contento).

Il risultato è un documentario di 10 minuti del 1911 (per capirci, siamo poco dopo Méliès, stesso anno dell’Inferno di Bertolini, De Liguoro e Padovan, che avevo musicato qui) per la gloriosa Ambrosio Film, assolutamente delizioso, che mi ricorda un altro capolavoro italiano, successivo, che ho usato l’anno scorso in un corto che non posso mostrare, e cioè L’erba delle meraviglie di Fernando ed Ernesto Armati.

A Omegna l’idea per il documentario sulle farfalle era stata proposta da Guido Gozzano, il poeta, cugino di Omegna nonché appassionatissimo di cinematografia, ma che purtroppo è morto prima che potesse fare qualche film (mentre, ahimè, molti altri sono nati dopo per fare cose inutili, ma si sa che va così).

Di questo “La vita delle farfalle” si trovano solo pochi minuti in questo video di Youtube dal minuto 3.44, ma sarebbe da vedere intero e su uno schermo gigante.

Strepitoso – e intero, grazie a Dio –  La vita della chiocciola che ovviamente ho inconsapevolmente omaggiato più volte in Adiosu (inconsapevolmente perché all’epoca non l’avevo ancora visto, ma evidentemente già comunicavo con il buon Omegna). Questo, come altri film, Omegna l’ha fatto con la collaborazione di Eugenio Bava – padre di Mario Bava – con cui si divertiva a fare queste cose spudoratamente Méliès, sempre per la gloriosa Ambrosio Film.

Insomma le premesse c’erano tutte. Come poi si sia arrivati a quello che si fa oggi non si sa.

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Forse non sono Uma

Sul cellulare compongo una poesia osservando giovani businessman emiliani nella pausa pranzo:

questi uomini d’affari
che pranzano nei bar
prendono insalate
e acque naturali
non portano calzini
né pelli animali
non sudano e non puzzano:
forse non sono umani
sorridono, scopano,
non si ammalano mai
e vivranno in eterno:
con la camicia aperta
anche in inverno.

mediocre, ma vabbè, non so scrivere le poesie. e poi in realtà, avendola scritta col cellulare, nella prima versione era intervenuto pesantemente il correttore automatico, e forse era più bella:

questo uomini d’affitto
che pranzo nè barca
prendi insalata
e accessori naturale
non porta calzature
ne pensi animali
non Sudan non puzza
forse non sono Uma
Sorrento scoparti
non si può ammalato mai
e vivrà in eterno
con la camicia aperto
anche in invernali

emozione.

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Le disavventure di Beppo-SAX – terza puntata

BeppoSAX1

Le prime due puntate della serie “Le disavventure di Beppo-SAX” sono andate perdute, e dalla quarta in poi in realtà hanno fatto finta di girarle perché non c’erano più soldi ma non volevano fare un dispiacere al produttore (il signor Attilio Blasi di Piacenza) che stava in ospedale. Comunque la terza puntata inizia così: Beppo-SAX sta facendo capriole nello spazio quando dal Comando Centrale gli viene assegnata una missione. Beppo-SAX allora diventa serio e si concentra, solo che si distrae mentre gli spiegano la missione e non capisce bene. Comunque arriva nel pianeta recentemente scoperto Cleene-X, dove è apparsa una misteriose luce azzurra. E’ come l’aurora boreale, ma è fuori dal pianeta, lo circonda, pulsa, è molto bella e gli scienziati non sanno spiegare cosa sia. Non si sa se è pericolosa, radioattiva o se fa male alla pelle, ma nel dubbio è già nato una specie di parco tematico, una stazione spaziale dove, pagando 5mila euro, si può andare a osservare la Luce Celeste (la gente la chiama così). Ci sono pure dei napoletani che vendono dei gadget della Luce Celeste che vanno a ruba e che costano più del viaggio per andare a vederla. Sono fatti con le lucette del presepe.Per capire cosa sia questa misteriosa luce vengono istituite tre diverse equipe di scienziati, una giapponese, una russa e una americana. Gli italiani non se li caga nessuno, ai tedeschi non interessa, gli altri manco sapevano che c’era questa cosa. Dopo 3 mesi di lavori nessuna delle tre equipe di scienziati ha scoperto cos’è questa luce, se emana energia, se fa male, quali sono i costi e chi dovrà pagare la bolletta. I giapponesi in realtà non si sono manco impegnati, da subito hanno speso tutto il budget scientifico in prostitute e droghe. Beppo-SAX ha il compito di entrare all’interno della Luce Celeste e vedere cosa succede. Incosciente e infantile com’è, diciamo un po’ pazzerello, il piccolo Beppo non si fa troppe domande, quindi arriva e si lancia dentro la Luce Azzurra. Una volta dentro esclama “Sax-ziale!” e poi sparisce, inghiottito da una forza misteriosa. E’ tipo un buco nero o un wormhole, cose che nessuno capisce e che nessuno sa spiegare. Fatto sta che Beppo-SAX si ritrova a Osmannoro, in un’agenzia immobiliare. Tenta di fare retromarcia ma il locale è piccolo e non riesce. La puntata finisce così, lasciando la suspense, la suspance e Bud Spencer negli spettatori, con l’agente immobiliare che dice “prego, si sieda”.

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Il Comitato Disperazione è di nuovo in azione

Si veda: www.sardegnaabbandonata.it/sostienici

CONTRIBUIRE GRAZIE

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Nei 666coli fedele

Il carabinierismo non ci sta: il relativismo imperante, il laicismo, perfino l’ateismo stanno rovinando il mondo, e questo è sotto gli occhi di tutti. E quindi il carabiniere prende posizione e ribadisce le radici sataniste della nostra cultura.

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A ribadire la posizione questa scritta naturalmente anonima, coerentemente alla linea del carabinierismo:

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Non c’è altro da aggiungere.

Nei 666coli fedele.

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Alla cassa del supermercato gestito da meridionali

Stamattina:

  • (cassiera) Gesù Cristo mio aiutami…
  • Io: Che succede?
  • Eh, e che succede…
  • (nel frattempo passa una commessa molto giovane e bacia ripetutamente un santino di Gesù appeso sopra la cassa)
  • Questa ogni volta che passa fa un amplesso fa…
  • (da lontano) Cosa faccio?
  • Fai una messa ogni volta! Ogni volta così
  • Io: ma funziona?
  • (da lontano) Cosa?
  • Io: baciare Gesù
  • (si avvicina) Certo che funziona, è che bisogna avere fede
  • Io ho fede ma mi sa che non funziona.
  • E’ che devi pregare!
  • Ma io prego ma quelli non mi ascoltano (con sfumatura non solo politeista ma anche anti kasta)
  • Devi pregare di più, io ogni volta che prego a Padre Pio poi va tutto bene
  • Io: e come mai non c’è l’immagine di Padre Pio ma solo quella di Gesù?
  • E che dovevo fare, l’altare? Quella (riferendosi alla commessa) lo voleva mettere, ma sai qua vengono tanti di questi… stranieri… e che dobbiamo fare, l’album di figurine facciamo vedere?
  • (la commessa di nuovo lontana) Io li prego sempre. Quest’anno non mi è venuto manco un raffreddore.
  • Sì, vabbè. Buonanotte… (mi guarda sconsolata, io sorrido un po’ complice) Sono 18 euro e 50.
  • Io: pago con la carta.
  • Sperando che funzioni, col permesso di Gesù Cristo.