Nel 1919 Auguste Dejardin individuò per la prima volta l’elemento chimico Solito. Il ricercatore lo individuò un pomeriggio domenicale, quando stai sul divano e pensi che anche se il mondo si accartocciasse in quel momento sparendo improvvisamente a te non cambierebbe nulla, ed era appunto a questo che stava pensando Dejardin quando sentì bussare alla porta e gli venne consegnato un pacco importante che aspettava da tempo. Circostanza strana per svariate ragioni: tanto per cominciare la domenica le poste non lavorano, e poi Dejardin non aspettava mai niente di importante, dato che era abituato fin dalla tenera età a non dare importanza a nulla. In questo caso però fece un’eccezione: era un campione costituito da un pezzo di deflettore elettrostatico in molibdeno bombardato con nuclei di deuterio nel ciclotrone dell’Università di Santadi. Erano passati mesi dalla sua prima richiesta e ormai quasi non ci sperava più, e invece eccolo là in tutta la sua bellezza: il campione di molibdeno bombardato con nuclei di deuterio nel ciclotrone dell’Università di Santadi! Dejardin spacchettò, sussultò e infine esaminò. Circa un mese dopo il professor Moreau dell’Università di Santadi – mittente del pacchetto ricevuto da Dejardin in quel pomeriggio domenicale – ricevette una risposta del suo vecchio allievo e ora stimato collega. O almeno così pensava, a giudicare dall’indirizzo; si trattava invece di una lettera della madre di Dejardin, la signora Adeline, che informava il professore dell’avvenuto decesso del suo amato figlio Auguste. Si era impiccato proprio quella domenica dopo aver esaminato il campione di molibdeno speditogli dal professore. Per la polizia non c’erano dubbi: si trattava di un banale suicidio. Anche la signora Adeline, dopo un dignitoso momento di disperazione, se ne fece una ragione e pensò che, tutto sommato, quel suo povero figlio era vissuto fin troppo. Ma c’era una cosa che non capiva, ed erano due semplici parole lasciate da Auguste su un bigliettino ricavato dalla carta da pacchi utilizzata dal professor Moreau per impacchettare il campione di molibdeno. Auguste, poco prima di togliersi la vita impiccandosi nel bagno, aveva scritto semplicemente “IL SOLITO”. La povera signora Adeline non riusciva a capire cosa volesse dire con queste sue ultime parole, così aveva deciso di rivolgersi per iscritto al gentile e affettuoso professore. Il quale, lette quelle parole, dovette mantenersi ai braccioli della seggiola per evitare di finire a gambe per aria. “L’ha trovato! Auguste l’ha trovato!” ripeteva come impazzito. Era il 1919 e il Solito – il cui simbolo è Sl – era stato individuato per la prima volta in un campione costituito da un pezzo di deflettore elettrostatico in molibdeno bombardato con nuclei di deuterio nel ciclotrone dell’Università di Santadi.
Vabbè, chiedo scusa per il freestyle ispirato dalla parola solito… Non so nemmeno io com’è successo. E’ che ogni volta che qualcuno mi chiede “allora come va, a parte il solito?” penso a quei film americani dove c’è sempre uno che al bar chiede “il solito”, solo che la barista dovrebbe rispondere “malessere, morte e disperazione?” e il personaggio “sì, con ghiaccio”. Il fatto è che è difficile metterlo da parte, il solito.
Concludo con un appendice ispirata dall’odore che sta arrivando in questo momento dalla finestra.
mi sono sempre chiesto come dev’essere abitare vicino a un ristorante che fa cose buone. da qualche mese l’ho scoperto, ed è come pensavo: terribile. tu sei lì che ti mangi una patata lessa condita con olio di sburro perchè quello di olive extravergini è finito da due giorni e non hai avuto voglia di fare 50 metri per andarlo a comprare, e dalla finestra ti arriva odore di calamari fritti. e allora le cose sono due: o chiudi la finestra e mangi triste, ben sapendo quale orgia di delizie e di sapori attende i più fortunati nel mondo esterno, oppure tieni la finestra aperta fingendo che le patate lesse siano calamari fritti. un’illusione che non dura nemmeno mezzo secondo, quindi tutto si riduce a mangiare triste con la finestra aperta oppure chiusa. e ciò conferma un’altra mia ipotesi: l’inferno è un posto dove c’è odore di calamari fritti ma tu non puoi mangiarli.
questo mi fa venire in mente un libro che stavo leggendo da poco, non ricordo più quale, dunque non mi è piaciuto, ma c’era un passaggio che mi ha fatto capire molte cose sullo scrivere, dato che si impara di più dai libri brutti che da quelli belli. un personaggio vagava disperato in un paese all’alba e lo scrittore si era dato da fare per descrivere tutte le sensazioni, l’aria fresca dell’alba, quella luce particolare che noi tutti conosciamo eccetera eccetera. ma non parlava dell’odore del pane. ma porca troia, hai mai REALMENTE girato un paese a piedi, solo e disperato, all’alba? la cosa che ti stordisce assolutamente è l’odore del pane appena sfornato: è così forte che non riesci a pensare, non percepisci altro, solo quell’odore di pane, come se avessi la testa dentro il forno. è la stessa cosa che capita in quei romanzetti erotici dove non si dice mai che la figa puzza di pesce. quanto sarebbe diverso il mondo se invece sapesse di calamari fritti? non dico meglio o peggio, ma diverso.
Una risposta su “Come va, a parte le solite cose? Ah ah, sei sempre il solito (con appendice letteraria sulla figa e i calamari fritti)”
o il mio pescivendolo è un cialtrone, o l’igiene intima delle donne che frequenti necessita di un sereno e attento riesame