come promesso, ispirato da un commento, ho tentato la modalità viaggiozzo interiore (vedi post precedente, Arrampicandomi su una radice sospesa nel cielo incontro una capra dai capelli bellissimi) però accompagnato dai funghi. le difficoltà riscontrate sono quelle che immaginavo, ma è stato comunque interessante. ora, so che raccontare i trip è un po’ come raccontare i sogni – e cioè potenzialmente noioso – però lo scrivo più per me che per gli altri, e poi è un documento che può essere utile per studi scientifici. se non avete voglia di leggere, boh, fate altro, accendete un falò, scoprite le infinite possibilità del tangram, imparate un linguaggio di programmazione, fate i muffin salati, mangiate una pizza, fate una passeggiata. io la passeggiata la consiglio sempre per tutto. mal di testa? fai una passeggiata. problemi di relazioni con le persone o con te stessa? fai una passeggiata. sensazione di avere il cervello troppo pieno o troppo vuoto? fai una passeggiata. è arrivata una cartella dell’agenzia delle entrate? passeggiata. e così via. ma cominciamo il resoconto. io la pizza la prendo con le cipolle, grazie.
lo scopo era… no va beh, forse scopo è una parola grossa, diciamo l’intenzione, ecco, sì: l’intenzione era quella di riuscire a guidare una visione da sveglio con la psilocina in corpo che fa le sue magie e mi aiuta a viaggiare. non facile, ma ho provato. dei funghi non dirò né la varietà utilizzata né la quantità, perché non è necessario essere così precisi, e poi ai più perspicaci svelerebbe il mio peso, e una signora non rivela il proprio peso, comunque diciamo una quantità media in modalità lemon tek (quindi trip più potente e intenso, ma più breve).
la mia intenzione non era solo divertirmi, provare gioia e serenità e comunione con l’universo – oltre a godermi le solite psichedeliche fantasie floreali da tovaglie della nonna o quelle geometriche da tende e copridivani, che hanno pure rotto, diciamo la verità – ma rendere l’esperienza il più possibile introspettiva e narrativa. come vedremo non è stato facile, soprattutto all’inizio, con alcuni momenti decisamente tragicomici.
overtura: grazie alla magia del limone dopo 20 minuti dall’assunzione stavo già accarezzando il ramo di un albero che in quel momento mi faceva molto ridere, lo trovavo molto buffo, e mi ricordava un cane. il vento muoveva anche gli altri rami e rapidamente tutto si è trasformato in un branco di cuccioli che volevano essere accarezzati. dunque accarezzavo e sorridevo a questi rami-cagnolini carinissimi, gli dicevo “aspettate, vi accarezzo tutti, buoni buoni!” e mi sembrava pure che scodinzolassero. ottimo inizio. ah sì, ero nel bosco (questo dovevo scriverlo sopra, magari poi lo sposto, ma ciò vorrebbe dire rileggere il testo – che fatica, no, lasciamolo così). poi: vado avanti e vedo per terra delle piantine verdi che sbucano tra le foglie umide e marcescenti. il loro verde quasi mi acceca, ho l’impressione di poterci parlare, cosa che inizio a fare. lo so, sembra proprio uno di quei trip in cui un cretino si mette a parlare con le piante – ed è così infatti – ma poi arriva una parte inaspettata, se avete fretta, andate pure. la fretta è adulta, il bambino riporta tutti i dettagli. e questa è decisamente una cosa bambina, non è una cosa adulta. non c’è spazio per la sintesi qua. ogni dettaglio può essere quello fondamentale.
dicevo: inizio a parlare con queste piantine verdi, le percepivo come delle famigliole, e ridevo molto e dicevo “ma come fate a crescere lì? complimenti!”. avevo paura di calpestarle, ma loro mi hanno rassicurato facendomi capire che erano molto resistenti, e io ero commosso di tanta carineria, oh piccole adorabili foglioline verdissime, così garbate, così resistenti! però ho pensato che non fosse vero: “qualcuna si potrebbe spezzare sotto il peso dei miei piedi” mi son detto, ma ho pensato anche che non era importante perché erano tante, anzi, ho formulato esattamente questo pensiero: “è come se mi si staccasse un braccio, per il pianeta non sarebbe un problema, ci sono tante altre braccia”. ho dialogato ancora un po’ con le adorabili piantine verdi, che si muovevano leggermente con il vento, ma ho notato qualcos’altro di verde che spuntava: il muschio. anche a lui ho fatto molti complimenti per il fatto che crescesse così bene. ho spostato alcune foglie che lo coprivano perché arrivava un raggio di sole e pensavo gli facesse piacere. l’ho accarezzato per un po’ ridendo, provando un affetto incredibile per questo muschio, poi mi è venuto in mente che forse le foglie gli servivano per coprirsi dai raggi dal sole e che quindi avevo fatto una cazzata e mi sono sentito in colpa. l’ho ricoperto scusandomi, “scusa, non avevo proprio pensato a questa cosa, veramente” e l’ho accarezzato ancora e mi sembrava che facesse le fusa. il muschio mi ha detto di non preoccuparmi. l’ho salutato e sono andato avanti nel bosco guardandomi intorno e sentendo tutti i suoni in maniera distinta e allo stesso tempo completamente indistinta, paradosso percettivo tipico di questi stati di alterazione. è un po’ come sentirsi al centro di un’orchestra. ed è a questo punto che mi sono paralizzato di fronte agli uccelli.
prima reazione sorpresa incredibile, come se non li avessi mai visti prima, poi risate e tentativo di comunicare: “siete tantissimi e velocissimi! ma come fate? avete veramente un sacco di energia, io non ci riesco!”. erano centinaia: cioè, in realtà credo che non fossero davvero tanti: c’erano molte foglie morte sui rami che si muovevano un po’ per per il vento, ma io in quel momento vedevo tutto accelerato quindi a un certo punto quando gli uccelli stavano fermi pensavo fossero foglie, quando le foglie si muovevano pensavo fossero uccelli, insomma ero un po’ confuso e sono rimasto lì per qualche minuto – o mezz’ora, o venti secondi, chissà – ad ascoltare i versi e a osservare i loro movimenti. con gli uccelli-foglie non sono riuscito a comunicare.
forse frustrato da questa mancata comunicazione ho guardato di nuovo le piantine verdi, di cui ormai ero amico, e ho pensato che avrei potuto togliermi le scarpe e camminare a piedi nudi, cosa che mi piace sempre fare e che faccio normalmente nel bosco. e qua è sorto un dubbio, un dilemma, ma anche un forte imbarazzo. percepivo la cosa come sconveniente. ricordo di aver pensato – o forse detto a voce alta – “non vorrei rovinare i buoni rapporti che ho instaurato con loro”. una frase buddhista dice che bisogna camminare come se baciassimo la terra con i piedi. evidentemente ce l’avevo in testa perché l’idea di camminare tra le piantine verdi a piedi nudi è diventata una cosa sessuale. ho pensato “non so se loro sono consenzienti… magari a loro non fa piacere, non vorrei che pensassero che prima ho parlato con loro ma in realtà ero interessato al sesso. forse dovrei chiedere il permesso? ma già chiedere il permesso mi farebbe sembrare strano” – tutto questo mentre stavo imbambolato in piedi in qualche posa strana a fissare da lontano le piantine sperando che non percepissero i miei pensieri. insomma, una piccola paranoia. allora mi sono allontanato da lì pensando “ci tornerò più tardi magari” e sono andato in un punto del bosco dove spesso mi stendo tra le foglie e mi addormento. mi sono seduto sulle foglie secche e la terra ha iniziato a gonfiarsi, a respirare. no, aspetta, prima è successa un’altra cosa interessante.
mentre mi allontanavo dalla situazione imbarazzante con le piantine e camminavo, ho guardato le gambe e non le ho percepite come mie, era come se andassero da sole, e ho pensato che questa cosa non andava bene. quindi ho avuto una conversazione con loro, in particolare con le ginocchia. ho detto che dovevamo unire tutto il corpo e fare “un’alleanza” per camminare attentamente, “altrimenti potremmo scivolare e cadere”. mi sentivo come se stessi cavalcando un cavallo senza avere alcun rapporto con lui/lei, stessa identica situazione, del tipo “vediamo dove mi porta”. nel bosco questo non va bene – beh, non va bene in generale – dunque ho comunicato con le mie gambe cercando di riunire tutto questo corpo che indosso, tutte le parti. è stato semplice: è bastato parlare con gentilezza con le mie gambe e abbiamo iniziato immediatamente a collaborare: di colpo la mia percezione è passata dalla parte superiore del corpo a quella inferiore e infine a tutto il corpo insieme, senza più separazioni, dalla testa fino ai piedi, e ho iniziato a camminare con più attenzione. dopo qualche passo sono suonate le campane, tante, perché le chiese nelle colline intorno hanno tutte orari diversi di pochi secondi, quindi prima parte una, poi parte l’altra, e siccome era mezzogiorno il risultato è stato un concerto per campane con decine e decine di rintocchi: a ogni rintocco, dolci lampi sinestetici di luce, dunque sentivo le campane, che mi sembravano provenire da sole alto, ma ne vedevo anche il suono.
quando sono arrivato nella zona delle foglie secche (perché molto battuta dal sole), quella dove abitualmente dormo, inizialmente mi sembrava come se ci fossero delle persone sdraiate sotto le foglie e il loro addome che si alzava e abbassava mi dava l’idea che la terra respirasse. mi sembravano dei morti, perché erano come sepolti. ma respiravano, quindi non potevano essere morti. o forse anche i morti respirano? ho parlato con queste persone credo facendo questa domanda: respirate anche se siete morti? e in quel momento da lontano ho sentito un “tutto bene?” ho risposto senza girarmi “sì, sono già in compagnia” e ho continuato a osservare le foglie che si alzavano e abbassavano. ho iniziato a seguire il respiro, a inspirare ed espirare con loro e ho capito che non erano persone: era la madre terra che respirava. in poco tempo ho visto tutte le cose respirare con me e in me, e ho iniziato a respirare le cose. mi sono alzato e ho camminato lentamente: quando inspiravo chiudevo gli occhi e vedevo un miscuglio di foglie, alberi, pietre che si gonfiavano e si moltiplicavano in tanti frammenti tipo caleidoscopio, quando espiravo aprivo gli occhi e vedevo le stesse forme ma più realistiche intorno a me. a questo punto mi sono ricordato che avevo un obiettivo, un intenzione! dovevo andare in un posto, fare domande, stavo perdendo tempo a fare il fricchettone dei boschi. quindi sono entrato in modalità “concentrazione”.
ho detto a me stesso: devi concentrarti, volevi fare una cosa, ne stai facendo altre, perché il “problema” – se vogliamo considerarlo tale, in realtà è uno degli aspetti più belli – è che con i funghi vivi solo il presente. quindi anche solo aprire la porta per entrare in casa può diventare un’esperienza molto più significativa di quella che magari ti eri programmato di fare (programma concepito nel passato, per qualcosa da fare nel futuro: e queste due dimensioni non esistono, c’è solo il presente: aprire la porta). mi sono concentrato: ho aperto la porta, ho fatto le scale, sono andato a pisciare. prima ho aperto il rubinetto del lavandino e l’acqua formava dei cerchi molto interessanti da osservare mentre le gocce mi sembravano delle perline solide che rimbalzavano lentamente. trovavo molto buffo aprire il rubinetto e vedere l’acqua uscire. è una cosa che mi stupisce sempre, quotidianamente, ma in quel momento ovviamente era tutto molto amplificato. è davvero così semplice? muovo questa leva ed esce l’acqua? mi sembrava magico – e lo è. ho riempito il lavandino d’acqua e ho iniziato a dare leggeri colpetti alla superficie, restando incantato dalle figure che si creavano. ho notato che se davo un solo colpo secco l’acqua tornava al suo stato tranquillo e trasparente molto velocemente, mentre se la agitavo per molto tempo ci metteva più tempo a tornare allo stato iniziale. nella mia testa si è generato questo pensiero “l’acqua è molto solida. se le do un colpo [nota: a me sembrava letteralmente di picchiare l’acqua] assorbe velocemente, un solo colpo non le fa male. ma se la infastidisci per molto tempo è più difficile… più tempo la infastidisci più sta male”. da fuori tutto questo era un adulto che giocava con l’acqua nel rubinetto fissandola moooolto concentrato. a un certo punto mi è sembrato di vedere dei grossi spaghettoni trasparenti, tipo udon, nel rubinetto, e allora mi è suonata l’alert “ti stai di nuovo fissando su una cosa, ricorda l’obiettivo, l’intenzione. concentrati!”.
dal lavandino mi sono spostato al water per pisciare. ho visto il liquido uscire dal mio pene e finire dentro al cesso e ho pensato che fosse meraviglioso e che fosse uno spreco pisciare dentro il water. cioè, questo liquido caldo e giallo che abbiamo dentro di noi, perché buttarlo così? ho pensato “dovrei chiedere alle piantine verdi, magari a loro farebbe piacere” – ma di nuovo ho percepito questo pensiero come qualcosa di sessuale, cioè, non solo voglio camminarci sopra a piedi nudi, mo’ voglio pure pisciarci addosso? quindi ho lasciato perdere questa cosa e ho tirato lo sciacquone. e mai l’avessi fatto: il rumore mi è sembrato quello di uno tsunami dentro la mia testa, il vortice che si è creato mi ha attratto tanto che mi ci sarei tuffato dentro, e in più mi sembrava che l’acqua fosse verde e viola. ho pensato che fosse uno di quei cosi igienizzanti che si mettono nel cesso (come si chiamano, non mi viene…) ma poi ho scoperto che nel mio bagno non ci sono, quindi, niente, vedevo l’acqua colorata. ovviamente mi divertiva molto e ho iniziato a tirare lo sciacquone un po’ di volte, finché non ho perso interesse, continuando però a pensare che fosse un po’ uno spreco buttare il piscio dentro quel tubo: ho immaginato il percorso che faceva, nelle tubature, nelle fogne, ho cercato di vederci qualcosa di utile – poi grazie a dio ho interrotto questi pensieri mi sono ricordato che avevo deciso di concentrarmi. avevo un obiettivo, un’intenzione!
quindi sono uscito dal bagno – dove penso di essere stato mezz’ora – e sono andato in camera da letto. c’era il sole, si stava bene. su un foglio ho scritto con un pennarello che è importante concentrarsi e che le cose possono essere anche più belle se ci si concentra. ero pronto al viaggiozzo, ma un tappetto rosa mi ha fatto perdere qualche minuto: fantasie floreali, sfondo rosa, si muoveva, era molto bello, vedevo tutti i minimi dettagli – ma di nuovo ho pensato “no, lascia perdere il tappeto, è una distrazione! puoi guardarlo quando vuoi, ora fai quello che devi fare” e mi sono sdraiato sul letto. avevo deciso, per ridurre input esterni imprevedibili e altre distrazioni, di chiudere gli occhi e mettermi le cuffie con l’audio di un ruscello. insomma, il viaggiozzo, mi dispiace dirvelo per voi che vi siete consumati gli occhi fin qua, inizia solo ora. ma andiamo con ordine.
metto le cuffie. faccio partire l’audio del ruscello e chiudo gli occhi. la sensazione è stata che l’acqua fosse letteralmente dentro le cuffie e che, invece di entrare dentro le orecchie, uscisse fuori e mi colasse addosso, su tutto il corpo. si è creato un ruscello su di me, fino alla pancia: lì si divideva in due rami, a sinistra filava liscio fino a piedi, a destra si fermava nel ginocchio, dove percepivo come dei tronchi incastrati tra le rocce e dunque l’acqua scorreva con più difficoltà (nota: in questo periodo ho un’infiammazione al ginocchio destro). ascoltare il suono dell’acqua mi dava un piacere indescrivibile, una sensazione di gioia assoluta, un massaggio sonoro. però, ancora, dovevo concentrarmi: rischiavo di passare un’ora semplicemente a godermi il suono del ruscello e magari a vedere un po’ di cose strane a occhi chiusi, ma non è quello che volevo, anzi, di esperienze visive ne avevo avuto già fin troppe, ora dovevo davvero concentrarmi, in quello stato a metà tra la meditazione e il dormiveglia, dove pensavo di potermi addentrare in un ambiente mentale, un paesaggio interiore, dove muovermi e incontrare qualcuno/qualcosa. e più o meno ci sono riuscito.
inizialmente si è creato un bosco al centro della mia pancia, dove passava il ruscello che partiva dalle cuffie. però non riuscivo a entrarci, lo percepivo solo dall’alto, quando cercavo di scendere a livello terra le immagini sfumavano, si incasinavano, vedevo troppe cose, quindi non vedevo nulla. dovevo vedere meno ma vedere meglio. quindi di nuovo ho utilizzato il potere della concentrazione. sono atterrato nel bosco, alberi altissimi, pietre, acqua, grosse radici, muschio, un bel posto. là ho immediatamente visto un animale che inizialmente mi sembrava un cinghiale, poi qualcosa di diverso, una specie di incrocio tra una foca, un castoro, un ornitorinco e un maiale. ha iniziato lentamente a mutare forma mentre mi guardava circospetto. non volevo spaventarlo, ma allo stesso tempo sapevo di doverci interagire. da qui in poi descrivere quello che succede è veramente molto difficile, e chissà quante persone stanno ancora leggendo, a parte me mentre scrivo, ma via, proviamoci.
allora: l’animale, l’entità, ha iniziato a cambiare forma in continuazione, più io mi avvicinavo più cambiava forme e dimensioni. a volte sembrava un grosso strano rapace colorato, come certi dinosauri con le piume, dal becco appuntito e l’espressione cattiva, e se mi avvicinavo cercava di saltarmi addosso, aggredirmi, puntando agli occhi. a questo punto mi sono accorto che stavo “guardando” la scena, come se fosse un film, ma non mi sentivo dentro. dunque – occhio che qua arriva una roba un po’ difficile da spiegare a parole – ho sfondato la quarta parete. ho sentito come se il mio corpo, il mio sguardo, andasse oltre – diciamo uno spostamento in avanti, ecco. da qui ero più immerso in questa realtà generata dal suono del ruscello e l’animale si è fatto ancora più sfuggente e aggressivo. quando mi attaccava però non avevo la minima paura e quelle che potevano essere aggressioni con ferimenti si trasformavano in abbracci. lo so, fa ridere ma è così, puntava ai miei occhi con il suo becco e quando arrivava in picchiata su di me ci abbracciavamo. poi tutto è degenerato, ha iniziato ad avere forme non riconoscibili, non più ibridi di qualcosa di esistente o di simile a qualcosa di esistente, ma forme senza forma, una materia in costante mutazione. io… allora: ho iniziato questa frase già quattro volte perché non so come descrivere questa parte. non è facile. diciamo che io diventavo immediatamente quella-cosa, come risposta, come reazione, come tentativo di interazione, dunque non c’era più un confine, era quasi come allo specchio, ecco, una bellissima danza sincronizzata di entità di plastica fusa che in continuazione mutano forma e stato, molli, elastiche, a volte liquide, a volte solide. il corpo esisteva solo in relazione alle sollecitazioni esterne, come risposta che si creava in quel momento e subito dopo mutava, non era mai niente di definito. una danza magnifica.
finita questa lunghissima parte praticamente impossibile da raccontare, mi sono concentrato su alcuni piccoli riflessi, piccoli frammenti di luce simili a pianeti-stelle-corbezzoli-luminosi, molto piacevoli da guardare, che se però fissavo troppo a lungo – o meglio, se troppo a lungo prestavo attenzione allo stesso corpuscolo luminoso – si incazzavano, o almeno questa era l’impressione che avevo. appariva un’espressione cattiva, un po’ da scheletro, e allora passavo a vederne un altro, solo che si ripeteva sempre la stessa cosa. a questo punto ho usato di nuovo l’incantesimo del respiro: inspirando queste entità di luce (tra il bianco e l’azzurro) inspiravano esattamente come me, e così anche quando espiravo. ci siamo sincronizzati e anche qua è sparita ogni idea di confine: respiravamo insieme, non c’era paura, non c’era separazione.
tutto bello, ma ho capito che stava iniziando a calare l’effetto e che il viaggio si avviava alla conclusione, e non volevo perdere tempo a fissare lucette e geometrie colorate e altre divertenti e innocue distorsioni percettive. ma… mi sbagliavo, perché proprio in questa fase arriva un grande insegnamento: alterno occhi chiusi e occhi aperti, un po’ assonnato, e noto che qualunque cosa veda cambia immediatamente. un colore nel momento in cui lo percepisco come tale (rosso, viola) muta diventando tutti gli altri colori. idem una superficie, qualsiasi cosa. percepisco il fluire di ogni cosa, il costante mutare di tutto: una cosa quando la guardi è così solo in quel momento, ma è stata tanta altre cose e sarà tante altre cose subito dopo, non c’è niente di fisso, tutto scorre incessantemente mutando. ora non perdo troppo tempo a dilungarmi su questo perché siamo nel campo dell’inutile-parlarne, dopotutto questa è una pratica, non una filosofia, ma è stato veramente un momento – dieci minuti forse – di grande insegnamento. ho sentito profondamente questa cosa. il continuo fluire di tutto.
poi mi sono ricordato delle piantine verdi: avevamo un conto in sospeso. ho pensato di nuovo che forse avrei dovuto camminarci sopra a piedi nudi. sono uscito fuori di nuovo, alla domanda “tutto bene?” ho risposto “sì, ma ho un conto in sospeso con delle piante” e sono andato verso la parte di bosco dove tutto era iniziato. mi sono tolto scarpe e calzini e ho iniziato a camminare a piedi nudi, finché sono arrivato dalle piantine verdi e… niente, non c’era più comunicazione. era ancora tutto molto bello, c’era il sole, ombre un po’ più lunghe, colori molto vividi, e loro erano carinissime, ma non c’era la comunicazione di prima, quindi ho piacevolmente camminato in quel tratto di bosco ma un po’ deluso ho lasciato perdere quasi subito, per andare nella zona foglie-secche, quella dove di solito dormo. c’era molto caldo, per essere inverno, e così, con i piedi nudi e i pantaloni arrotolati fino al ginocchio come un hobbit, mi sono accucciato per terra tra le foglie – il materasso migliore del mondo è il bosco in autunno-inverno, c’è poco da fare – e mi sono addormentato. credo di aver dormito dieci minuti o poco più e non ricordo di aver sognato. ho aperto gli occhi, mi sono stiracchiato e ho fissato per un po’ l’albero spoglio sopra di me, i rami, qualche foglia che chissà come è rimasta ancora attaccata, poi il cielo, e mi pare che sia passato un aereo. poi mi sono alzato, ho recuperato scarpe e calze e sono tornato a casa (cioè venti metri più in là). fine.
Considerazioni
obiettivo raggiunto? viaggiozzo psilocybe cubensis governato? non del tutto. la parte più narrativa-onirico-simbolica presente nel precedente viaggiozzo qua è mancata se non del tutto… quasi. in realtà la parte centrale, quella nel bosco della mia pancia con la/le creatura/e è stata simile al precedente incontro con la capra, ma molto più indecifrabile e difficile da raccontare – forse anche più bello, ma veramente quasi impossibile da verbalizzare. sono contento però di essere riuscito a concentrarmi, in un certo senso a dirottare il trip un po’ come volevo io, questo è stato interessante. come al solito gli insegnamenti sono tanti: provi e senti cose che già pensi e senti di tuo, hai delle conferme diciamo; oppure, al contrario, provi e senti fortissimamente cose che ignoravi, fai delle scoperte – cosa chiedere di più? a parte il foglio con scritto quanto fosse bello e utile concentrarmi alla fine ho trovato un paio di registrazioni audio fatte col telefono (uno soprattutto dove ragionavo molto sull’acqua) e poi un altro foglio, con una semplice scritta: fluire.
2 risposte su “Il Continuo Fluire di Tutto e un momento di imbarazzo con alcune piantine verdi”
“ecco, una bellissima danza sincronizzata di entità di plastica fusa che in continuazione mutano forma e stato, molli, elastiche, a volte liquide, a volte solide. il corpo esisteva solo in relazione alle sollecitazioni esterne, come risposta che si creava in quel momento e subito dopo mutava, non era mai niente di definito. una danza magnifica.”
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