Nel vercellese c’è una famosa chiesa abbandonata, parzialmente nascosta nella boscaglia, che da decenni eccita parecchio l’immaginazione di giovani e vecchi. Si chiama la Chiesa della Madonna delle vigne. Si dice che sia della fine del ‘600; si dice che sia stata sconsacrata a fine ‘700; si dice che sia abbandonata da due secoli; ma soprattutto si dice che qua si svolgessero rituali satanici.
Le “giovani donne ivi praticavano riti satanici” (cito da una delle tante fonti). Le suore della chiesa, intervenendo per formare l’abominio, “caddero anch’esse nella spirale diabolica e si unirono al gruppo”. A quel punto intervennero i monaci maschi, e pure loro caddero nella spirale diabolica iniziando a convertire i fedeli della zona a Satana, abiurando Dio.
E vabbè, questo il mito, affascinante e anche divertente. Ma il dettaglio che la rende veramente interessante è che tra gli affreschi c’è uno spartito conosciuto come “spartito del diavolo”.
Secondo il mito, o una delle versioni più diffuse del mito, nella chiesa era intrappolato un demone e un monaco ghostbuster riuscì a intrappolarlo con una melodia, quella raffigurata nell’affresco. C’è un problema: se si suona quella melodia al contrario, il demone può liberarsi. In molti ovviamente hanno provato, e io ho una mia teoria: secondo me qualcuno c’è riuscito.
Infatti tutto intorno, questo posto dipinto ovunque come “suggestivo”, è in realtà triste e deprimente, ansiogeno, soprattutto nelle belle giornate, quando la luce inesorabile del sole illumina ogni singolo dettaglio e obbliga il nostro sguardo a scontrarsi con una sorta di iperrealtà. Forse con la nebbia certe cose non si vedono e tutto diventa più “suggestivo”, può essere. Ma con il sole, ahimè, le cose si vedono benissimo ed è per questo che trovo la luce molto angosciante: si vede molto, si vede troppo, si vede anche quello che non si vorrebbe vedere.
Mentre visitavo il santuario abbandonato intorno a me tagliavano e sradicavano alberi, aprendo strade per scavatrici e trattori, in un’orgia di deforestazione, consumo di suolo e dissesto idrogeologico. Il boschetto dove si trova la chiesa maledetta sembra imploso. Non c’è nemmeno un metro che sembra essere rimasto al riparo da ruspe, motoseghe e anziani con il gilet.
Intorno, due o tre tristi laghetti artificiali, reti metalliche a delimitare qualsiasi cosa, cartelli di divieto, di proprietà privata, di divieto di accesso, di sosta, di fermata. Se c’è una strada, è perché ci passano i trattori. Se c’è un sentiero, è perché ci passano cacciatori o pescatori (per andare nei tristi laghetti, ora ghiacciati). Il posto è incredibilmente deprimente. Da lontano vedo quella che mi sembra una nutria, spaesata almeno quanto me, che non sa dove andare. Tutto intorno campi, campi, campi.
Quando si parla di agricoltura intensiva forse si sbaglia, il vero problema è l’agricoltura estensiva. Mi guardo intorno: due o tre alberi, il resto sono rettangoli, quadrati e altri poligoni più o meno complessi, senza interruzioni. Non ci sono corridoi di alberi e vegetazione, sembra un’area desertica. Ma qua, proprio a fianco alla chiesa satanica, c’è un bosco. Dato che sono preso dallo sconforto decido di andare là, forse tra gli alberi mi sentirò meglio. Le entrate sembrano irraggiungibili a piedi, perché è circondato da campi che non è possibile attraversare. Dunque bisogna prendere la macchina.
Il bosco dall’alto appare così, una minuscola macchia verde in un deserto chiamato agricoltura. Tutto intorno l’artiglio del demone è avanzato inesorabilmente, lasciando questa manciata di alberi a cui hanno dato il nome di “bosco”. Per arrivarci percorro una lunga strada sterrata, tutto intorno ovviamente il nulla, coltivazioni, coltivazioni, coltivazioni. Monoculture, poi vedremo il perché. Ogni tanto qualche airone, e anche di questo poi vedremo il perché.
Il bosco di pianura, in inverno, può essere un po’ triste, perché la maggior parte degli alberi non ha le foglie; ecco, questo non è triste, è proprio che fa pensare al suicidio. All’entrata una sbarra. Cartelli sbiaditi ovunque. Area videosorvegliata. Divieto di. Vietato questo. Vietato quello. Un ponte pedonale di una lega metallica completamente fuori luogo porta all’interno del “bosco”.
Se si guarda poco più in là all’orizzonte ci si rende conto di essere nella periferia di una zona agricolo-industriale. Dentro non si sente un uccello. Anzi, forse uno. Per terra non si vede merda di animali. C’è un’aria spettrale, come di bosco maledetto. Moltissimi alberi sono caduti, altri sembrano colpiti dai fulmini, forse perché sono gli unici in mezzo a un enorme territorio piatto e privo di vegetazione. Sono tutti segnati, perché in parte questo bosco è anche “una riserva di legna”.
Ora non ricordo con precisione cosa dicesse il cartello ma parlava di “armonizzare” il taglio degli alberi con l’ambiente naturale, una cosa così. Il risultato è che sembra di stare in un posto che sta morendo, o che forse è già morto. Credo ci sia più vivacità e biodiversità nelle campagne intorno a Chernobyl. La passeggiata è deprimente, e ovviamente – e per fortuna – dura poco, perché il posto è minuscolo. Come tante altre “oasi”, “parchi naturali” e “boschi” italiani, è un avanzo, qualcosa che è stato lasciato per ricordarci che un tempo l’ambiente dove viviamo era un po’ diverso. Lo stesso sito ufficiale del bosco lo definisce un “brandello”, “un lembo”, e poi, poeticamente, “una zattera sul mare delle risaie”.
C’è anche un cartello che lo dice espressamente: “il bosco ricorda com’era questo territorio in passato”, dunque è una sorta di simulazione, di rievocazione storica quasi. Sempre nello stesso cartello si vantano della biodiversità, e viene un po’ da ridere. Come flora, ce n’è di più nel mio giardino o in molti parchi cittadini; come fauna, se parliamo di animali ne vengono citati tre, di cui una specie “sporadica” (certo, come fa arrivare qua un animale se tutto intorno ci sono chilometri e chilometri di campi, senza nessun corridoio verde? con l’elicottero?), per il resto si tratta di uccelli che si trovano ovunque ci sia un po’ d’acqua – ed ecco il perché dell’airone, perché siamo circondati da risaie e ci sono canali – e poi insetti, che grazie a Dio puoi sganciare anche bombe nucleari e quelli difficilmente li smuovi. Ironicamente una specie degna di nota, segnalata da numerosi cartelli, è una specie infestante, un insetto che invitano a “non portarvi a casa”.
Ora, non sono un biologo né un ecologo, ma il posto sembra La Morte. Più che il sopra, che è sempre la punta dell’iceberg, bisognerebbe guardare il sotto, la qualità del terreno, le reti micorriziche; sopra vedo giusto un paio di licheni, segno che l’aria almeno non è quella di Pechino. Ma c’è poco da fare, in assenza di esami precisi, la sensazione è che Satana abbia toccato questo posto con la sua mano.
A fine passeggiata trovo un’altalena che, come tutte le altalene, sembra uscita da un film horror: non resta che usarla, che adeguarsi al copione. Il cigolio suona come il lamento inquietante e spettrale di questa natura. Registro e sovraincido due giri di altalena. Non si sentono uccelli, almeno facciamo cantare l’altalena. Il risultato è questo, la colonna sonora di questo bosco, forse molto peggio della melodia che catturò il demone:
Ora, guardiamo le cose dall’alto. Tutta la pianura padana è così. Anzi, possiamo dire che tutte le pianure sono così. Campo viene proprio da campus, campagna piatta. L’agricoltura è come il Nulla della Storia infinita che tutto inghiotte. Ma il luogo satanico non è la chiesa che ho visitato all’inizio. È l’abbazia vicina. Ebbene sì, c’è un colpo di scena.
Infatti questa zona è da secoli influenzata dalla presenza del cosiddetto Principato di Luc&d1o. Fondato nel 1123 (pare) dai monaci cistercensi, è qua che verso la metà del 1400 (pare) venne introdotta la coltivazione del riso. Ecco Satana che appare e mette radici, molto prima dello spartito del diavolo della chiesetta qua vicina. I suoi semi hanno l’aspetto di chicchi di riso.
Avviene il disboscamento massiccio, il livellamento dei terreni, la “bonifica”, insomma tutto quello che oggi possiamo tradurre con consumo di suolo, monocultura, devastazione, morte. Dopo i monaci l’abbazia e la mega-azienda agricola diventano di proprietà di vari ricchi, prima i Gonzaga, poi i Savoia, poi Napoleone (come tutto: tutto, a un certo punto, è stato di Napoleone), infine – riporto dal sito ufficiale – “passò al marchese Giovanni Gozani di San Giorgio, antenato dell’attuale proprietaria, la contessa R0s3tta Cl4ra C4v4lli d’0liv0la Salvad0ri di Wiəsenh0ff”.
Una dinastia di distruttori e portatori di morte – intesa come annientamento degli ecosistemi e della biodiversità. Perché per me la morte non è tanto quella di un singolo esemplare di una singola specie, o perfino di un’intera specie, ma degli ecosistemi che accolgono le complesse e intrecciate relazioni tra le tante specie. Magari l’alterazione o la distruzione di un ecosistema come cadavere è meno appariscente, perché ci siamo abituati, ci viviamo; ma è comunque un cadavere, e nemmeno utile, perché è un cadavere che non si decompone e non si trasforma: è mummificato, immobile, inutile, sterile.
Se vediamo a bordo strada un povero animaletto investito da una macchina versiamo comprensibilmente una lacrima; idem se vediamo un agnello sgozzato, un maiale che viene ucciso o un uccello impallinato. Ma la distruzione ha un aspetto più subdolo e meno spettacolare: è una forma geometrica piana, bidimensionale. È un campo. E quella cosa che tutto appiattisce. Fin dall’etimo campus è anche “campo di battaglia”: la battaglia dell’uomo contro il resto della natura.
Il cadavere poligonale è la devastazione di un ecosistema, dove spariscono specie vegetali, insetti, animali, qualsiasi cosa, a volte per sempre (infatti non è sempre vero che gli ecosistemi si riprendono, soprattutto quelli limitrofi ai territori agricoli: dove c’era il deserto ed è stata portata l’agricoltura, spesso è ritornato il deserto). L’Ispra parla di 2mq al secondo di consumo di suolo nel 2020.
Nel sito del principato si legge che da secoli la loro azienda ha “saputo valorizzare il contesto territoriale in cui nasce”. Valorizzare, assieme a armonizzare e sensibilizzare è una di quelle parole di cui bisogna avere timore. C’è anche una foto della famiglia dei ricchi proprietari, che sembra uscita da Midsommar, il capolavoro di Ari Aster:
Insomma, il demone dello spartito è là fuori, ma non è quello che ci aspettavamo. Ha un altro volto, un’altra faccia, altre motivazioni. Vuole crescere, crescere, crescere. Ma la crescita di capitale economico è diminuzione di capitale naturale. Ho trovato Satana, ma non è quello di cui parlano i blog di amanti di posti abbandonati e cacciatori di fantasmi. Satana è un rettangolo marroncino attraversato da un trattore. Il suo spartito non suona una ammaliante melodia, ma è più simile al suono di una trebbiatrice. Satana è un agrimensore.
3 risposte su “Sono andato a cercare Satana e l’ho trovato”
Mi viene in mente il titolo di un libro di Yasunari Kawabata, “Bellezza e tristezza” da associarsi al tuo articolo e al suo contenuto.
Vabbeh, questo pezzo è magnifico. Sei uno degli autori di padaniaclassics, vero? 😉
@Davide il libro non lo conosco, però il titolo sì, direi che ci sta tutto. Forse anche Bellezza e tristezza (e devastazione)
@White_Rabbit grazie! conosco padaniaclassics ma non posso essere uno degli autori perché loro sanno come fare lo danaro, io sono geneticamente incapace!