L’altro giorno dovevo prendere l’aereo. Stavo camminando nel breve tratto tra la fermata del treno e l’area delle partenze, quando davanti a me ho notato che la colonna di persone che si dirigeva verso l’aeroporto ha iniziato a rallentare, per poi fermarsi. Ho percepito un movimento strano, non ho capito cosa succedeva. Dieci, forse quindici passi dopo, per terra c’era un uomo appena morto. Sopra di lui una ragazza che gli praticava il massaggio cardiaco. L’uomo era sui sessanta, aveva gli occhi aperti e la bocca spalancata. La sua camicia era leggermente sollevata e si intravedeva la pancia. A fianco a lui il trolley, rimasto in piedi. Sotto la testa una pozza di sangue si allargava lentamente. Non me ne intendo, ma mi è sembrato chiaramente morto sul colpo. La ragazza si affannava con il massaggio cardiaco, poi sono arrivati due paramedici dell’aeroporto, ma tra loro li ho sentiti dire qualcosa che non ricordo ma che alludeva al fatto che non c’era niente da fare. Una scena triste, non c’è che dire.
Ciò che mi ha veramente colpito però sono state le persone intorno alla persona morta. Avevano tutti la stessa faccia, che poi penso fosse la stessa che avevo io. In piedi, in silenzio, con le nostre borse, zaini, trolley, a fissare quel corpo fino a poco fa in movimento come noi, diretto verso un aereo con un orario preciso di imbarco e decollo, diretto verso un futuro – e ora steso a terra, con occhi e bocca spalancati, immobile. Nessuno diceva niente, nemmeno le coppie o i gruppi di amici, nessuno faceva commenti, silenzio assoluto. L’unico suono che si sentiva era l’affannarsi della ragazza che praticava il massaggio cardiaco. Lo sguardo delle persone era sorpreso, attonito, infantile, impreparato. Potevo sentire i loro pensieri, perché erano anche i miei: ma come, funziona così? Stai camminando e muori? Così, senza preavviso, in mezzo a una folla di sconosciuti?
Non è come vedere un incidente mortale – mi è capitato di vederne – oppure un malato morire in ospedale – e anche questo, come a tutti penso, mi è capitato. Il morto improvviso, così, all’aperto, sulla strada, è tutta un’altra cosa. Nessuno è preparato, né chi resta verticale, né, tantomeno, chi si ritrova orizzontale con mezza pancia fuori in mezzo a un gruppo di estranei. È totalmente imprevisto, non sai nemmeno la causa, puoi solo ipotizzarla perché siamo leggermente istruiti o, peggio ancora, leggermente informati, quindi puoi azzardare pensieri come “chissà, forse è un ictus, oppure un infarto? No, no, se è morto così di colpo dev’essere un ictus, un colpo appunto, sembra proprio come se fosse stato colpito e buttato a terra”. Ma la verità è che al momento non lo sai e continui a fissare quel corpo orizzontale e gli altri corpi verticali intorno stupefatti che la morte sia così improvvisa, veloce, semplice. Come una magia.
Può capitare che passino davanti a te pensieri un po’ banali, come “potevo essere io, poteva essere mio fratello, chissà dove stava andando, chissà la famiglia”, ma è una specie di rumore di fondo collettivo, sai che anche gli altri stanno pensando la stessa cosa, ma sai anche che non è quello che sentiamo veramente. C’è qualcosa di più profondo in quel corpo con la bocca spalancata. Perfino un momento di invidia, forse. Oppure di totale pace, nel percepire che il suo corpo si è fermato ma qualcosa, non saprei dire cosa, resta ancora. Anche il fatto stesso che noi siamo lì a guardarlo, non per semplice curiosità, ma come se la cosa ci riguardasse direttamente – e in un certo senso, anzi, in più sensi, ci riguarda tutti direttamente – per un istante lo rende non del tutto morto. Lo fissiamo perché è un nostro simile, ma anche perché – credo – non ci arrendiamo all’idea che sia morto. E in effetti non è così. Dire che è vivo, non è del tutto esatto; ma anche dire che è morto, non è del tutto esatto. Il corpo ha senza dubbio smesso di funzionare, su questo non ci sono dubbi. Ma si sente qualcos’altro, quell’uomo non è sparito. C’è anche un aspetto politico – come sempre – perché è chiaro che lo sentiamo come “uno di noi” non solo in quanto homo sapiens, ma perché era in aeroporto come noi, andava da qualche parte come noi, aveva un bagaglio come noi. Mi è capitato una volta di vedere un barbone morto a terra e le persone passargli intorno, deviando solo per un attimo il cammino, senza nemmeno guardare. Non era uno di noi, credo che il senso fosse questo. Il barbone muore e non ci sorprende, il viaggiatore invece sì, è una svolta inaspettata, non è così che doveva andare.
Dei ragazzi vestiti di arancione dicono di “circolare”, come nei film, ripetono più volte di andare avanti, con quelle frasi inevitabilmente ridicole come “non c’è niente da guardare”, ma la maggior parte delle persone restano lì in piedi, anche chi ha l’aereo tra poco, come me. Siamo imbambolati. La ragazza smette di fare il massaggio cardiaco e non viene nemmeno usato il defibrillatore. Si sentono le sirene dell’ambulanza, che, un po’ come la campana alla fine delle meditazioni, interrompono questa strana bolla di sospensione che ha coinvolto me e un’altra dozzina di viaggiatori in partenza, e ce ne andiamo.
Non sono particolarmente turbato, vedo la morte come parte della vita e la vita come parte della morte, sono la stessa cosa, diverse manifestazioni della stessa identica cosa. Dal mio punto di vista ecologico, che poi è lo stesso buddhista, c’è solo “continuazione”. Ho sempre trovato divertente un modo di salutare che mi pare si sia diffuso solo negli ultimi due decenni (io prima non lo ricordo) e cioè “buona continuazione”, spesso detto anche da sconosciuti come camerieri di bar e pizzerie al momento del commiato, dopo il pagamento. Alcuni dicono “buon proseguimento”, che è lo stesso concetto, ma io preferisco “buona continuazione”.
Ma dicevo: il corpo morto mi ha sorpreso, è stato certamente un imprevisto in quella situazione così ordinaria del tragitto dal treno all’aeroporto, ma non mi ha colpito più di tanto. Ciò che mi ha colpito davvero è stata la reazione dei vivi, quell’imbambolamento collettivo, come ipnotizzati. Fino un attimo prima affannati tra messaggi da mandare ad amici e parenti, emoji giusti da scegliere per persone diverse, un bicipite muscoloso motivazionale da mandare ai colleghi, un cuoricino rosso alla ragazza o ragazzo, una risata con le lacrime all’amico che ha appena fatto una battuta idiota, poi il controllo dei documenti, il controllo compulsivo del biglietto, del posto assegnato, entrata posteriore o anteriore?, degli orari, farò in tempo a prendere il treno una volta arrivato? Così proiettati verso il futuro, trascinandoci dietro bagagli più o meno pesanti.
Poi ecco il corpo immobile, la bocca spalancata, il trolley che non viene più trascinato, e di conseguenza l’immediato ritorno al qui e ora, al presente. L’immagine del trolley in piedi è molto potente. Ci disturba, ci impaurisce, non a caso negli aeroporti e nelle stazioni ripetono ossessivamente di non lasciare i bagagli incustoditi e si sente spesso di “allarme trolley”, “trolley sospetto”, “allarme bomba per trolley abbandonato” e così via. Il trolley solitario è l’immagine di una morte appena avvenuta o di una morte che potrebbe avvenire – in generale della nostra ansia. Ed è l’ultima immagine che mi è rimasta del morto, assieme a qualche centimetro del suo corpo scoperto, un pezzo di pancia.
Mentre accelero verso le partenze penso questo e penso anche: farò in tempo a pisciare prima di partire? Pisciare in aereo è sempre una scocciatura, soprattutto se hai il posto vicino al finestrino e ti tocca chiedere agli altri di alzarsi per farti passare. Ma mentre penso e mentre passo velocemente i bagagli ai controlli di sicurezza, vedo ancora il trolley, e quel corpo a fianco, con la camicia leggermente sollevata a svelare una pancetta tutto sommato accettabile per l’età, una pelle bella, liscia, scura, verrebbe da dire sana, se non suonasse involontariamente ironico visto quello che è successo. E poi dove verrà portato? In realtà lo so, perché anni fa mi ero chiesto cosa succede dopo la morte, non in un senso spirituale ma da un punto di visto pratico, anzi burocratico, direi quasi logistico. Nel momento in cui viene dichiarata “la realtà della morte” (il poetico linguaggio della burocrazia) c’è una procedura molto precisa a seconda di come sei morto, ma più o meno simile per tutte le persone.
Entro in aeroporto e piscio, perché è stato uno degli ultimi insegnamenti di mio zio Carlo prima di morire, “quando c’è un bagno approfittane, piscia sempre”. Le sue erano delle pisciate tattiche, aveva dei problemi alla prostata, quindi non sapeva con precisione quando doveva pisciare ma gli capitava spesso, a caso, e se era in giro non si perdeva un cesso. Anche se si fermava per un caffè veloce, andava a pisciare. Quindi prima di prendere l’aereo piscio, perché pisciare una volta che l’aereo è decollato, come dicevo, è una scocciatura. Quella sera, a una cena, vedo un bambino di sette mesi. Non vedevo da tempo un bambino così piccolo e rimango incantato a osservarlo, perché è davvero un buffo animale. Dev’essere in una fase in cui scopre le cose con il tatto, un senso che spesso sottovalutiamo. La nostra pelle è ricoperta di terminazioni nervose, è un organo percettivo potentissimo. Il bambino tocca, afferra, sbatte i talloni violentemente contro il pavimento, e poi rotola. Le mani sono minuscole e rattrappite, cresceranno, diventeranno come le mie, fino poi a rattrappirsi di nuovo, seccarsi, decomporsi. Chiedo alla mamma come fa a tagliare delle unghie così piccole (non so nulla di neonati) e mi spiega che in effetti è difficile, ma soprattutto è importante limarle perché capita che si procuri involontariamente dei tagli sul volto. Una volta è capitato anche a me, da ubriaco. E i bambini sono un po’ come dei piccoli ubriachi da controllare e accompagnare a casa perché non possono guidare. Comunque tagliarsi le unghie è un argomento interessante, ed è una pratica che andrebbe fatta con una certa consapevolezza.
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Oggi compio gli anni. Quasi quarant’anni fa sono nato, per così dire. Mia madre mi ha partorito, da lì in poi il mio corpo ha iniziato a cambiare giorno per giorno (era già cambiato nei nove mesi precedenti) fino ad arrivare a questo momento, e continuerà a cambiare fino alla morte, naturale o accidentale. Per curiosità mi son chiesto com’è un albero della mia età, così ho cercato su internet “un albero di 38 anni”. Una ricerca molto naif, me ne rendo conto, e infatti l’algoritmo mi ha restituito i risultati che mi merito: “Cade mentre pota un albero, 38enne in gravissime condizioni”, “Rho, il vento abbatte un albero colpendo una donna di 38 anni”, “Un rumeno di 38 anni, ieri mattina, è stato trovato impiccato a un albero”, “Firenze, 38enne tenta di impiccarsi a un albero dopo una delusione d’amore”, “Schianto contro un albero, muore automobilista di 38 anni” e così via. I risultati sono tutti di 38enni le cui morti sono in qualche modo legate agli alberi: chi si è schiantato, chi si è appeso, chi ci ha provato. Un punto di vista molto antropocentrico, se vogliamo.
Cerco in inglese, con l’illusione che basti usare l’inglese perché le cose funzionino meglio – anche se, ricordiamo, “il giorno della fine non ti servirà l’inglese” – ma i risultati sono identici, cambiano solo i luoghi: 38enni in giro per il mondo morti colpiti da un albero, caduti da un albero, impiccati a un albero. Cambio la ricerca e finalmente trovo qualche albero di circa 40 anni. Volevo capirne le dimensioni, l’aspetto, anche se ovviamente dipende dal tipo di albero. Ne trovo di bell’aspetto, solidi, grandi, ma soprattutto ospitali. Un albero non è “un” albero, è più una comunità, una parte di qualcosa di più grande e complesso, un insieme di cose legato a tanti altri insiemi di cose, dunque guardare un albero e vedere solo un albero – quell’albero – è riduttivo, è come guardare un singolo nodo di un complesso intreccio. Mi accorgo allora che la metafora non funziona: vedermi come un albero è vedermi come un individuo, come una cosa a sé. E non è così che funziona la realtà.
Mi ricordo di avere delle finestre. Chiudo internet e guardo fuori gli alberi intorno a me. L’intreccio di relazioni e interconnessioni tra entità viventi e non viventi è complesso e meraviglioso, e io fluisco là in mezzo, un po’ di qua e un po’ di là, in questa forma da quasi quarant’anni. Le persone che conosco e che ho conosciuto, le cose che ho fatto, le comunità di cui faccio e ho fatto parte, il cibo che mangio, i pensieri che faccio, le parole che ho sentito, gli zaini che ho portato sulle spalle, per un attimo tutte queste cose mi vengono in mente, conscio che è tutto trasformazione e che miliardi di cellule stanno morendo nel corpo mentre scrivo. Sto cambiando anche ora, verso un’altra forma – una forma che, se mi concentro, posso vedere, ovvero la decomposizione, oppure verso la semplice cenere, se verrò cremato. La cenere mi piace moltissimo. Alla fine ragionare su quando si è stati partoriti, sul punto a cui si è arrivati – cioè ora – e il punto a cui arriveremo – cioè il corpo che si trasforma ancora – non è niente di così significativo. Ho imparato meditando, drogandomi e osservando la natura che è impossibile e inutile immaginare la nascita di qualcosa: c’è soltanto continuità, trasformazione. Questo però non significa che segnare la tacca, utilizzare un’unità di misura convenzionale per segnare da quanto sono conscio di avere a che fare con tutti gli altri enti, sia una cosa inutile. Anzi. È giusto festeggiarlo in modo semplice e genuino, spegnendo candeline, ridendo con amici e amiche, ricevendo e rispondendo agli auguri.
Nella Roma antica gli “àuguri” erano quelli che interpretavano il volere degli dei osservando i fenomeni naturali, in particolare l’osservazione degli uccelli. Di solito sono rappresentati con in mano un bastone ricurvo a forma di punto interrogativo. Più che alla mia morte, a cui non penso mai, nemmeno oggi, mi capita a volte di pensare alla morte delle persone che conosco, soprattutto – come facciamo tutti, credo – di quelle statisticamente più vicine all’evento come gli anziani. Ad esempio alla morte di mio padre. Statisticamente dovrebbe morire nei prossimi otto-dieci anni. Lui, in un certo senso, è un “augure”, nel senso antico romano del termine, dato che passa la maggior parte del tempo a osservare il volo degli uccelli. Sento già ora che, anche quando il suo corpo smetterà di funzionare, come quello dell’uomo in aeroporto, per me non sarà morto. Ovviamente mi dispiacerà, ma mi basterà vedere un uccello in volo, o qualsiasi altro fenomeno naturale a dirla tutta, per sentire che è presente in me. Così come ogni volta che piscio sento mio zio Carlo assieme a me.
Mentre scrivevo la mia compagna si è svegliata, è scesa in salotto e mi ha fatto gli auguri. Ha messo una candelina su un biscotto, l’ha accesa, ha cantato la classica canzoncina “tanti auguri a te” e io ho spento la candelina soffiando. La vita come la percepiamo in effetti è come una candela. Non diresti che prima della candela non c’era niente, e non diresti che dopo che la candela si consuma non c’è niente. C’è stata solo una trasformazione. Mi chiede se voglio il regalo subito, e ovviamente dico di sì: mi ha regalato un libro di magia di Martin Gardner, un libro che volevo da tempo. Gardner, in particolare in questo libro (la famosa enciclopedia impromptu) ha un approccio alla realtà eco-magico: tutto è magia, ogni oggetto, qualsiasi cosa su cui si possa posare lo sguardo è già magica in sé, dobbiamo solo innescarne il potenziale stuporoso per condividerla con gli altri. E a dirla tutta non c’è nemmeno bisogno di posare lo sguardo: si può fare magia anche a occhi chiusi. Combinare insieme oggetti o pensieri in maniera misteriosa, creare relazioni imprevedibili, questa è l’ecomagia (parola che credo di aver inventato: ho cercato su un motore di ricerca e non c’è, mi diceva “forse cercavi ecomafia”).
È uno sguardo, un approccio alla realtà. Relazioni imprevedibili tra oggetti, una carta e una moneta, un elastico e un fiammifero, un ombrello e termometro – così come un albero e un fungo, uno scoiattolo, un batterio, un virus. Da queste relazioni scaturiscono tutte le possibili combinazioni e le trasformazioni. La magia, oltre a mettere in discussione i nostri sensi – e facendo questo, obbligarci a guardare la realtà in un altro modo, con più attenzione e maggiore meraviglia – ha molto a che fare con la trasformazione. Un animale muore in un bosco, si decompone e da lì crescono piante e funghi, che sono la continuazione dell’animale. Il mago mette una pallina nella mano, ma quando la apre una colomba vola via. Il corpo di un uomo con il trolley muore, viene bruciato, diventa cenere, la cenere viene sparsa tra le piante del suo giardino, e lì cresce un albero. Allo stesso modo una maga alza le mani, fa magicamente apparire una fiamma (con la famosa carta lampo) e in un flash appare una carta, la regina di cuori, il sette di picche, quella che volete. Scomparsa, riapparizione, trasformazione, sono tutti termini magici e tutti termini che io ho usato poco fa parlando di morte.
In più la magia, come i funghi mi insegnano, offusca e sbiadisce i confini – quali? Tutti. Tra quello che pensiamo di vedere e quello che vediamo, tra il nostro corpo e il resto della realtà, tra l’interno e l’esterno, tra quello che pensiamo di sapere e quello che sappiamo, così come avviene nell’ecologia e ovviamente nella pratica buddhista. Si trascendono dualismi e confini distintivi tra le cose, si riconoscono le infinite varietà di relazioni, spesso imprevedibili e misteriose, ancora da scoprire o da decifrare. Un lichene è un alga o un fungo? Dove inizia l’alga e dove finisce il fungo? Dove inizia e dove finisce il mio corpo? Cosa intendiamo per animale? E per intelligenza? E per vita? Tutti i dualismi (vivo/non vivo, umano/non umano, per non parlare di naturale/non naturale) vengono messi in discussione.
Dunque tra la visione ecologica della realtà – che io devo principalmente a mio padre e a mia madre – e quella magica, le connessioni sono moltissime, tanto che per me sono esattamente la stessa cosa. Come dice oggi la fisica contemporanea, e come diceva un famoso mago – Siddhārtha Gautama – circa 2600 anni fa, non ci sono “cose”, non ci sono “enti”, ma solo relazioni tra cose, relazioni tra enti – questo è perché quello è. Un famoso mistico da poco trasformatosi in nuvola diceva che il vero problema non è essere o non essere, ma “interessere” (interbeing). Nell’ecologia è così; nella magia dovrebbe essere così – per me lo è – ovvero notare le possibili e infinite relazioni tra cose, oggetti, persone, pensieri, parole, numeri: da soli non esistono, esistono solo se messi in relazione, e quando succede si apre lo sguardo a una realtà più profonda, intrecciata, complessa.
Beh, le cinciallegre sono qua alla finestra; vengono a mangiare dei semi di girasole che mettiamo apposta per loro. Secondo i miei calcoli mangiano più di me e, se continuano così, tra poco avranno difficoltà a volare. Sono incredibilmente voraci, ma anche molto belline. Il mio gatto, quello arancione, l’altro giorno è tornato con la testa e le ali di una di loro in bocca: se l’era mangiata, nonostante sia nutrito con gustose scatolette di gamberi, merluzzo e salmone. Che dire? Tra morte, trolley, alberi, candeline e magia, direi che una buona sintesi di questi pensieri confusi che ho buttato giù è questa frase che non ricordo più dove ho trovato: “Scopo ultimo della magia non è ingannare il prossimo ma incoraggiare un approccio verso la vita e il cosmo pieno di meraviglia”.
LOL, mancano solo Errico Malatesta, la cicoria, gli alieni e gli Autechre e per il resto ho messo tutto.
Buona continuazione.
4 risposte su “Non nascita, non morte, magia impromptu e candeline da spegnere”
Auguri♡
Buon proseguimento nel giorno del tuo ecomagico augure
grazie grazie grazie!
… e buon compleanno.
PS Ho appena omaggiato zio Carlo la cui saggezza rimarrà a lungo scolpita nella mia memoria.