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Io soffro, quindi devi soffrire anche tu

ogni tanto purtroppo mi tocca andare dal medico. la sala d’attesa è minuscola e sempre piena. l’aria diventa subito irrespirabile e vige una regola non detta: se aspetti fuori, all’aria, al sole, è come se te ne fossi andato. se arriva qualcuno e chiede chi è l’ultimo, tu non conti più, perché non sei rimasto a soffrire al chiuso, nell’angusto e malsano spazio della sala d’attesa.

si potrebbe dire a chi aspetta, di solito al 95% vecchi incattiviti, che è più intelligente fare così, aspettare fuori, stare al sole. ma non sarebbero d’accordo. il pensiero è: io sto soffrendo, quindi devi soffrire anche tu. non è giusto che io stia in una cella senz’aria per due ore mentre tu fischietti all’aperto. non è pari. devi soffrire. si potrebbe dire al vecchiaccio: ma allora esci anche tu, cambiamo le condizioni di questo sistema sbagliato. no. è sempre stato così, abbiamo sempre sofferto, nessun cambiamento è accettato. there is no alternative.

mi è venuto in mente oggi leggendo la lettera che un ristoratore emiliano ha mandato al giornale per, dice, “cercare di avviare una riflessione”. sostiene di essere alla disperata ricerca di camerieri e di mettere molti annunci, ma i colloqui vanno sempre male per le richieste “semplicemente inaccettabili” delle persone. il passaggio che più mi ha colpito è questo:

“Per anni la ristorazione ha funzionato in un certo modo: orari lunghi, sacrificio, la consapevolezza che questo mestiere è fatto di serate e weekend passati a lavorare mentre gli altri si divertono. Era normale. Io stesso ho fatto la gavetta così. E ora mi trovo davanti a ragazzi e ragazze che non vogliono più accettare queste condizioni. Che mettono i loro bisogni, il loro tempo libero, persino il loro benessere davanti al lavoro.”

ragazzi e ragazze che mettono il loro benessere davanti al lavoro. che vogliono stare fuori al sole, che vogliono cambiare le condizioni. e invece no: io ho fatto la gavetta soffrendo, io ho sofferto, quindi devi soffrire anche tu.

l’idea che le cose possano cambiare, che magari non sia né giusto né necessario soffrire, sembra una cosa da matti. eppure il concetto stesso di progresso si basa sull’idea che le cose possano migliorare, che ciò che prima era considerato inevitabile possa diventare obsoleto. che certe sofferenze non fossero una condizione naturale, ma solo il risultato di un sistema che nessuno aveva mai avuto il coraggio o la possibilità di mettere in discussione.

è come se il ristoratore dicesse: ma prima c’erano i bambini nelle fabbriche, perché ora no? che succede? il mondo sta cambiando!

che logica perversa impone di perpetuare la fatica solo perché chi è venuto prima non ha avuto la possibilità di evitarla? dovrebbe essere il contrario: chi ha sofferto dovrebbe voler rendere la strada più facile per chi viene dopo. mio padre ha fatto un lavoro di merda nella speranza che io non lo facessi. suo padre stessa cosa.

chiunque dovrebbe essere fiero, sollevato, nel vedere che il dolore non è più necessario. invece spesso è il contrario. secondo me in parte c’è la paura di passare per scemi.

torniamo nella sala d’attesa: i vecchi sono lì da ore immobili in uno spazio di pochi metri quadri e con ormai scarso ossigeno. arrivo io e gli dico: ma si potrebbe aspettare fuori! si potrebbe aprire la porta! si potrebbe cambiare tutto e non soffrire! implicitamente sto dicendo che loro sono scemi, perché fino a quel momento hanno sofferto e non hanno cambiato le condizioni.

e se c’è una cosa che alla gente non piace è sentirsi dare degli scemi.

se ammettiamo che un sistema può essere cambiato, allora dobbiamo fare i conti con il fatto che in passato abbiamo accettato inutilmente condizioni ingiuste. che abbiamo perso tempo, salute, serenità, per qualcosa che non era davvero inevitabile. ed è un pensiero insopportabile. meglio convincersi che soffrire fosse giusto, che fosse l’unico modo. meglio tenere in piedi la sala d’attesa irrespirabile.

e non se la prenderanno mai con il sistema sbagliato, ma con chi si rifiuta di stare a un gioco malato, fatto di sfruttamento, malessere fisico e mentale, diseguaglianza. se la prendono con chi propone di cambiare: la fila di vecchi che si accanisce su chi osa stare al sole, il ristoratore che guarda con sospetto chi si rifiuta di sacrificare sé stesso come lui ha fatto. il rifiuto della possibilità che il mondo possa essere un posto migliore. il mantenimento di gerarchie.

perché alla fine non si tratta solo di sofferenza, ma anche di gerarchie. soffrire, in questo sistema, non è solo un costo da pagare: è una moneta di scambio per guadagnarsi il diritto di guardare dall’alto in basso chi viene dopo. “io ho fatto la gavetta, quindi adesso tocca a te”. è un modo per mantenere il potere, anche quando quel potere è solo il diritto di dire: “io sono più forte, io ho resistito”. la sofferenza come valore.

il ristoratore non sta solo difendendo un modello di lavoro, sta difendendo il suo status. se i nuovi arrivati non accettano più di sacrificarsi come lui ha fatto, allora il suo sacrificio cosa vale? se la sofferenza non è più la misura del valore di una persona, allora chi ha costruito il proprio senso di identità su quella sofferenza su cosa si regge?

è lo stesso meccanismo della sala d’attesa: chi resiste dentro non è solo passivo, lo fa anche per poter dire di essere più resistente degli altri. non si può cambiare la regola, perché quella regola stabilisce chi sta sopra e chi sta sotto. così, il sacrificio diventa non solo obbligatorio, ma anche uno strumento di potere.

e invece chi ha scalato la montagna dovrebbe voler spianare il sentiero per gli altri, non augurarsi che anche loro soffrano e magari vengano colpiti da una tormenta “perché è così che si fa”.

tanto, che ai vecchi piaccia o no, il sole splende lo stesso, fuori si sta meglio, e alla fine qualcuno aprirà la porta. qualcuno, alla fine, uscirà.

 

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