Parto da una cosa che mi sta a cuore: le droghe. L’ho scritto molte volte, lo ripeto ancora una volta: non vogliamo andare in farmacia, vogliamo drogarci.
Eppure, una tendenza sempre più diffusa negli ultimi anni, soprattutto per quanto riguarda gli psichedelici, è promuoverli come ottime medicine. Piacciono agli psichiatri, ci sono gli studi scientifici a supporto, sembrano avere effetti positivi sulla depressione, sull’ansia, sul disturbo da stress post-traumatico. E questa è una cosa buona. Ben venga che sostanze come la psilocibina, l’MDMA o la ketamina possano aiutare chi sta male. È utile, è importante, ci mancherebbe.
Ma ridurre l’esperienza con le sostanze alla medicina è limitante e butta all’aria millenni di esperienza umana, dove le droghe erano sì anche medicine, ma anche, non solo.
Non è possibile che ogni esperienza debba essere valutata e normata secondo un protocollo medico. E invece è una tendenza in atto: ricondurre ogni esperienza umana a un protocollo terapeutico, a una prescrizione, a un trattamento medico. Perché sembra che l’unico modo per legittimare l’uso di certe sostanze sia dire che curano qualcosa, che riparano un danno. Ci dev’essere un’autorità medica che autorizza l’uso perché stai male, perché hai un disturbo o magari perché stai schiattando.
Le sostanze, piante, funghi o prodotti di sintesi, non servono solo a quello. Esistono anche il gioco, l’esplorazione, il piacere, la conoscenza, la trasformazione personale e spirituale. Esiste il diritto di alterare la propria coscienza senza dover prima dimostrare di essere malati. Le persone l’hanno sempre fatto e lo fanno ancora.
Oggi ovunque spuntano articoli, podcast e conferenze che esaltano le proprietà terapeutiche degli psichedelici, come se fosse l’unico modo per legittimarne l’uso. Forse molti credono in buona fede che questa sia una strategia efficace, una sorta di cavallo di Troia: prima li facciamo accettare come farmaci, poi apriamo la porta al loro uso più ampio e ci possiamo drogare come vogliamo. L’idea è che, una volta dimostrati i loro benefici clinici, l’attuale società drogafobica sarà più incline a riconoscerne anche il valore ricreativo, esplorativo e spirituale. Ma se il lasciapassare per l’uso passa solo attraverso la medicina, finiamo per rafforzare l’idea che alterare la coscienza sia accettabile solo quando c’è una diagnosi, e non come diritto intrinseco dell’individuo.
Vogliono controllare le droghe non perché facciano male – di cose che fanno male ne abbiamo ovunque, alcol in primis, e restano legali – ma perché concedere alle persone il diritto di modificare la propria percezione senza una giustificazione terapeutica è considerato inaccettabile. Perché chi si droga per il gusto di farlo, senza autorizzazione, senza una cura da seguire, senza una diagnosi, senza nemmeno motivi religiosi, è un elemento fuori controllo.
Dunque tanto per cambiare è anche una questione di autorità. L’autorità pretende di essere il centro di tutto: stabilisce cosa è giusto e cosa è sbagliato, decide quando puoi provare piacere e quando devi soffrire. Ti insegna che il piacere è accettabile solo se regolamentato. L’erba da noi è illegale, ma va bene se hai il cancro. Psilocibina? Forse col microdosing. L’autorità ti dà il contentino della cura, della terapia, della prescrizione, del dosaggio controllato.
E allora sì, che gli psichedelici curino la depressione, che l’MDMA aiuti col trauma, che la ketamina serva contro l’ansia e che la cannabis aiuti col dolore. Ma non dimentichiamo che queste sostanze magiche esistono anche per chi sta bene. Per chi vuole vedere oltre, per chi vuole giocare e scoprire, per chi vuole spingersi in zone strane dell’esperienza umana senza il timbro di approvazione di un dottore.
Anche nelle culture indigene dove alcune di queste sostanze, le cosiddette piante degli dei, fanno parte dei rituali, la somministrazione è di fatto regolata da un’autorità. Lo sciamano, il curandero, l’anziano, ecc. Dalle nostre parti questa figura rischia di diventare lo psichiatra, l’autorità delle sostanze. Ma poi diciamo la verità: noi non siamo quelle società, a queste latitudini se prendo l’MD non ho per forza bisogno di inserirlo in un rituale spirituale o di contatto con gli antenati guidato dagli anziani o in un rito di iniziazione.
Ma il problema non è solo l’autorità: il problema siamo anche noi, che sentiamo il bisogno di convincerla. Che ci pieghiamo al suo linguaggio, che cerchiamo la sua approvazione per fare quello che vogliamo fare comunque. Quando diciamo che le droghe devono essere legali perché curano, è come se stessimo chiedendo il permesso. È un atteggiamento di sottomissione alla ricerca del consenso dell’autorità.
La psichiatria sta diventando la grande dispensatrice di permessi: puoi assumere certe sostanze, ma solo se hai una diagnosi. È un modo per trasformare tutto in terapia e l’esperienza in trattamento. Ma io non voglio un lasciapassare medico per esplorare la coscienza. A volte voglio solo sballarmi senza chiedere il permesso a nessuno. E questo è socialmente inaccettabile.
Leggevo un articolo sulla psilocibina come antidepressivo. Alla fine c’era il solito disclaimer: “Non tentate di replicare queste esperienze senza supervisione medica.” Nei commenti, un medico entusiasta elogiava la sostanza ma concludeva che non va presa “in autonomia” e che “l’uso ricreativo è sconsigliato”. Sempre la stessa storia: l’uso ricreativo è visto come pericoloso ed edonistico, mentre la sostanza è accettabile solo all’interno di una terapia controllata, come se l’esperienza autonoma fosse intrinsecamente rischiosa e riprovevole. Questo riflette una dinamica simile a quella delle religioni dove il contatto con il divino era possibile solo attraverso un intermediario.
Io, se necessito di assistenza, posso prendere i funghi con un amico o un’amica che ha più esperienza di me. Posso parlarne con altre persone, posso leggere libri, posso accedere a un sapere condiviso che non passa da uno psichiatra o da un’autorità di nessun genere. L’idea che solo un terapeuta qualificato possa guidare l’uso della psilocibina ignora secoli di conoscenze trasmesse oralmente tra culture indigene, psiconauti, super fattoni e comunità che hanno sperimentato direttamente gli effetti di queste molecole.
Noi abbiamo creato nuove tradizioni, spesso slegate da quelle da cui alcune di queste sostanze hanno origine. Il mio sciamano può essere l’utente molto esperto di un forum di psiconauti. Il sapere viene condiviso orizzontalmente piuttosto che trasmesso verticalmente da un’autorità designata. Non ho mai dato un esame di antropologia, ma credo che il passaggio da tradizioni indigene a nuove pratiche moderne non sia né una perdita né una semplice appropriazione: è un adattamento culturale, una trasformazione dei modi in cui cerchiamo il piacere, il sacro o la conoscenza. Così come nel passato quelle società hanno ridefinito il ruolo delle sostanze nel proprio contesto culturale, lo stiamo facendo anche noi oggi, creando i nostri rituali e le nostre comunità di riferimento. Inventiamo tradizioni.
La società sconsiglia sempre di più l’autonomia e l’autogestione. Perché sarebbe “pericolosa”. Ma se un gruppo di persone condivide informazioni, crea guide di riduzione del rischio e fornisce supporto reciproco, non è un sistema di sicurezza, solo più orizzontale e decentralizzato? La narrativa dominante dice che se non c’è un’autorità a supervisionare allora il consumo è sconsiderato. Ci vuole papà che ti accompagni.
La società, nel disincentivare l’autonomia individuale, finisce per rendere le persone impaurite, vulnerabili, insicure e dipendenti da un’autorità esterna per ogni aspetto della loro vita. Questo atteggiamento diffonde paura, mina la fiducia in se stessi, scoraggia la capacità di prendere decisioni consapevoli e scredita forme di autogestione e cooperazione. È come un genitore che dice al bambino “Non potrai mai fare a meno di me, non ci riusciresti. E non chiedere aiuto ai tuoi amici”.
E poi, lo so che sono ripetitivo e noioso, c’è un evidente doppio standard. Perché pochi direbbero dell’alcol “l’uso ricreativo è sconsigliato”, sarebbe assurdo. La società, per fortuna, accetta che si possa bere alcol senza uno specialista a fianco o che si possa fare un’escursione in montagna senza una guida certificata. Posso anche comprare una motosega e tagliare un albero, rischiando di mozzarmi un piede, senza nessuna autorizzazione o protocollo. Lo faccio in autonomia. Sta a me farlo con consapevolezza e intelligenza. Con le droghe invece la libertà individuale viene meno e tutto dev’essere controllato e sorvegliato.
So che è un discorso complesso e anche problematico, ma l’autorità della psichiatria non è diversa dalle altre: classifica, regola, decide chi ha diritto a cosa. Ti dice che se soffri, forse puoi avere un po’ di libertà chimica, ma se stai bene, allora no, allora sei solo un deviato, un tossico, un fattone.
Ma le nostre menti non sono un territorio regolamentato dall’autorità. Dentro le nostre menti dobbiamo pretendere libertà assoluta. Perché l’autorità peggiore non è quella là fuori, ma quella dentro di noi.
2 risposte su “Ogni cosa è medicalizzata”
CAZZO SÌ MALEDETTO DIO
Esatto