appendice al post ogni cosa è medicalizzata.
C’è anche un altro aspetto che non ho trattato, ma che si collega bene alla riflessione conclusiva sul fatto che l’autorità di cui dobbiamo avere paura è quella dentro di noi. Perché quella esterna si può e si deve abbattere o ignorare, ma quella dentro di noi è molto più insidiosa e difficile da combattere.
Sul tema delle droghe, osservavo come spesso si cerchi di giustificarne l’uso esclusivamente in ambito medico, mentre l’impiego a scopo ricreativo venga stigmatizzato, riflettendo una tendenza verso la medicalizzazione della società. Davo la colpa all’autorità, ma mi rendo conto che anch’io ho adottato lo stesso approccio, senza che nessuno me lo imponesse direttamente.
Mi è capitato qualche tempo fa: spiegando a un amico che fumo erba, e percependo in lui un certo scetticismo, ho detto subito che lo facevo perché il CBD ha alcune proprietà terapeutiche e forse mi faceva bene allo stomaco.
Era la giustificazione.
Ora mi osservo stravaccato sul divano, completamente intontito dal THC, gli occhi incollati al video in loop di uno gnomo che suona il flauto in un bosco, felice ma assente, sospeso in una bolla, incapace di fare qualcos’altro, gioiosamente improduttivo. Uso terapeutico del CBD? Un rimedio per il mal di stomaco? Difficile crederlo. Eppure, quando ne parlavo al mio amico, gliel’ho venduta (metaforicamente, sia chiaro, signor brigadiere) come se fosse una medicina.
Altro esempio: da appassionato estimatore di psichedelici, se devo consigliarli uso molto l’argomentazione dell’esperienza trasformativa e perfino spirituale, oppure l’argomento culturale. Far diventare l’esperienza con la sostanza un fatto culturale la nobilita e la rende socialmente accettabile. Ci vergogniamo di divertirci. Il divertimento puro, il piacere, non è un argomento abbastanza nobile, anzi, è qualcosa di riprovevole. E allora mandiamo al nostro amico un link dell’articolo della nota rivista culturale sull’uso sciamanico degli psichedelici per giustificare che prendiamo i funghetti la domenica mattina.
Io stesso mi sento più legittimato a usare certe sostanze perché ho letto dei libri, sono vagamente istruito, mi sembra di farne un uso intelligente. Quando in un podcast sugli psichedelici a parlare è un laureato che ha scritto un lungo e dotto articolo sul tema, con tante belle citazioni, è diverso da quando a parlarne è un fattone che va ai rave e ama i trip. Il secondo viene percepito come un tossico che ha meno diritto a parlarne perché è un selvaggio rozzo e incolto.
Questa distinzione è il risultato di un meccanismo più ampio: il valore che attribuiamo alle esperienze dipende da chi le racconta e dal contesto in cui vengono inserite. Un’esperienza che sarebbe considerata discutibile se vissuta da un emarginato diventa invece legittima se chi la racconta possiede il linguaggio e le credenziali giuste per nobilitarla. È lo stesso motivo per cui un ricercatore di Harvard può studiare e magari elogiare gli effetti dell’LSD senza essere visto come un drogato, mentre una persona che assume la stessa sostanza in un contesto ricreativo viene etichettata come irresponsabile.
È puro classismo culturale: la legittimazione di certe pratiche dipende dalla capacità di rivestirle di un’aura intellettuale o accademica. Non è la sostanza in sé a determinare il giudizio sociale, ma chi la consuma e con quali strumenti narrativi la giustifica. L’incolto, il fattone, non sente il bisogno di giustificare il proprio viaggio con riferimenti a studi neuroscientifici o tradizioni sciamaniche: vive l’esperienza direttamente, senza inserirla in una cornice culturale. Semplicemente si lascia attraversare dall’esperienza, senza sovrastrutture, senza il filtro della legittimazione intellettuale. L’incolto ignora o rifiuta il gioco della legittimazione, e in questo rifiuto c’è una forma di libertà che mette in crisi chi invece sente il bisogno di trovare sempre una giustificazione. Paradossalmente proprio questa immediatezza è vista come una forma di inferiorità. È come dire: “Non ti droghi nel modo giusto”.
Sia chiaro, la cultura non è il male. In fondo, dare un senso alle cose è segno di consapevolezza: attribuire un valore culturale o esperienziale a ciò che facciamo significa comprenderlo meglio, integrarlo nella nostra visione del mondo. È giusto, perché le esperienze – anche quelle legate all’uso di sostanze – sono parte della nostra crescita, della nostra cultura, della nostra identità. Ma se il senso che do a queste esperienze serve solo a nobilitarle agli occhi degli altri, allora sto giocando un altro gioco: quello della legittimazione, della compiacenza verso un’autorità – che sia morale, culturale o sociale. Se dico che l’LSD mi ha insegnato qualcosa sulla mia interiorità, se giustifico i funghetti con la loro storia millenaria nei rituali sciamanici, negando l’aspetto di puro divertimento, sto cercando un lasciapassare, un permesso per godermi un’esperienza che, in fondo, potrei semplicemente vivere senza doverla elevare a qualcosa di più alto. Ci vergogniamo del piacere per il piacere, perché non è abbastanza “nobile”, e così lo rivestiamo di significati più accettabili, per paura di sembrare superficiali, irresponsabili e soprattutto improduttivi.
Non a caso un’altra giustificazione frequente per l’uso delle sostanze è la produttività. Viviamo in una società che misura il valore di ogni esperienza in base alla sua utilità, e così anche le droghe devono dimostrare di avere uno scopo funzionale. Ho visto pubblicità di microdosing di psilocibina che la promuovevano come strumento per aumentare concentrazione e performance lavorativa, per essere “focalizzati”, quasi fosse un integratore per l’efficienza, un potenziatore cognitivo accettabile perché orientato alla produttività. Prendere i funghi per lavorare? È il paradosso perfetto: una sostanza ideale per espandere la percezione, per rompere gli schemi, diventa un altro ingranaggio della macchina produttiva. Perfino l’alterazione della coscienza deve essere messa al servizio del rendimento.
In tutti questi modi – medicina, cultura, produttività – dobbiamo sempre giustificarci, e lo facciamo in primis con noi stessi.
La morale è un’autorità interiorizzata. Dentro di noi, tra il pancreas e il fegato, ci sono un tribunale e una questura. Ci sono degli sbirri interiori, non meno veri di quelli in divisa là fuori, che giudicano e reprimono. Ed è a loro che ci rivolgiamo quando spacciamo (sempre in senso metaforico) le droghe per esperienze culturali e ci vergogniamo di divertirci. Ci stiamo giustificando. A forza di cercare scuse accettabili per ciò che facciamo, finiamo per diventare i nostri stessi sorveglianti.
Ma non abbiamo bisogno di farlo per tutte le sostanze. Le diffuse dipendenze da caffè (“non posso iniziare la giornata senza!” immaginate una persona che lo dica dell’hashish), alcol (“dopo il lavoro bevo un paio di birre per rilassarmi”), benzodiazepine (“me le ha date il medico per dormire”) sono socialmente accettate e normalizzate perché funzionali all’ordine sociale. Non voglio ovviamente denigrare queste sostanze: due di queste tre sono anche mie dipendenze. Ma perché il piacere puro dello sballo delle altre sostanze, quelle cosiddette “illegali”, non è accettato?
Se mi sballo semplicemente per il piacere di farlo, vengo percepito come irresponsabile, superficiale, edonista, sicuramente moralmente discutibile. Ma l’accusa più pesante è quella di individualismo, come se il desiderio di stare bene per il solo gusto di stare bene fosse un atto egoista, privo di valore sociale. Eppure, c’è qualcosa di profondamente collettivo nello sballo: le esperienze migliori non sono quelle solitarie, ma quelle condivise, in cui il confine tra il mio piacere e quello degli altri si dissolve, creando uno spazio comune di connessione, complicità e libertà.
Io penso che se voglio essere libero, allora non devo solo ignorare la morale sociale, ma anche smettere di darmi giustificazioni interne. Perché con gli sbirri interiori facciamo noi il lavoro di quelli fuori. Le divise non hanno nemmeno bisogno di intervenire se noi stessi, sotto la nostra pelle, ne indossiamo una. I manganelli possono restare nei cassetti, se io stesso ne impugno uno invisibile.
Il potere più efficace non è quello che reprime con la forza, ma quello che ci fa accettare la repressione come necessaria, come naturale. Ci abituiamo a giudicarci con gli occhi dell’autorità, a filtrare ogni nostro impulso attraverso il prisma del dovere, della rispettabilità, del decoro, della produttività. Essere liberi, allora, non significa solo sfidare le regole imposte, ma spogliarsi delle divise invisibili che indossiamo senza rendercene conto.
Devo accettare che il mio desiderio esista senza bisogno di nobilitarlo con la medicina o la cultura. Ho diritto al piacere, senza motivazioni spirituali, culturali, terapeutiche. Dobbiamo assaltare il tribunale e la questura dentro di noi e darli alle fiamme. Dobbiamo smettere di processarci, di chiedere permesso a un’autorità invisibile per poter godere. Non c’è bisogno di un verdetto di assoluzione per il semplice fatto di essere vivi e di desiderare. L’autorità interiore va distrutta, quella visibile semplicemente ignorata.
La totale indipendenza dal giudizio degli altri o dei nostri sbirri interiori è molto difficile, ma quello che possiamo fare è avvicinarci a quest’idea smettendo di mentire a noi stessi e assumendoci pienamente la responsabilità delle nostre scelte, senza bisogno di costruire giustificazioni per renderle più accettabili. Dovremmo considerare i nostri corpi e le nostre menti come spazi di autogestione totale, dove il piacere non ha bisogno di essere giustificato né tantomeno assolto.
Quindi vuol dire che posso fare quello che voglio fottendomene degli altri? No. L’ideale è sempre l’uso consapevole. Ma va riconosciuto quando la morale è un meccanismo di repressione che abbiamo semplicemente ereditato dai divieti dell’autorità.
Come sempre torna comodo l’esempio dell’alcol: è del tutto legale, economico, facilmente reperibile, eppure nelle strade non sono tutti ubriachi. La maggior parte delle persone ne fa un uso consapevole, ne conoscono i rischi, hanno imparato fin da piccoli a dosarlo, anche grazie a un sapere orizzontale fatto di amici e parenti. Non conosco nessuno che quando ne fa uso senta di fare qualcosa di sbagliato, semplicemente perché attualmente è legale per qualche tribunale. Quando la nostra morale coincide esattamente con i divieti dell’autorità, deve sempre suonare un campanello d’allarme, e deve suonare molto forte.
Siate liberi, drogatevi in pace.
questo testo fa parte dell’opuscolo “Verso un’insurrezione psichedelica” di MP edito da Robin Book Gang, liberamente scaricabile qua https://archive.org/details/verso-uninsurrezione-psichedelica/verso%20un%27insurrezione%20psichedelica%20Lettura/