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Dovete parlarne

qualche giorno fa ripensavo a un incontro che ho avuto esattamente 20 anni fa, nel 2005.

io non sono mai stato in palestina, ho amiche che ci sono state, ho conosciuto altre persone che ci sono state, ma io non mi ci si sono nemmeno mai avvicinato. però nel 2005 c’è stato un incontro importante: ho conosciuto un palestinese, che era appena arrivato credo proprio da Gaza in italia, ed era in una struttura della chiesa.

perché io fossi finito là è una storia lunga e per ora lasciamola stare, ma sta di fatto che nella sala comune della struttura, dove si parlava e si mangiava, ho fatto amicizia con questo ragazzo palestinese, che aveva la mia età o forse era di poco più grande, comunque ventenne.

non ricordo il suo nome.

le prime cose che mi disse, ancora prima del nome credo, erano legate a quello che aveva vissuto, a quello che succedeva in palestina e che il mondo secondo lui doveva sapere. mi spiegò in inglese la situazione ma anche la storia precedente, dando per scontato che io non ne sapessi nulla.

non era così: fin da bambino qualcosa sapevo, i miei genitori ne parlavano, le immagini dei palestinesi che negli anni ’90 lanciavano pietre contro i carri armati erano impresse nella mia memoria.

dovete parlare di questa situazione! diceva. e io gli avevo risposto cercando di tranquillizzarlo: ma guarda che lo sappiamo, se ne parla nei telegiornali italiani, si vedono le immagini in tv. è di solo qualche anno dopo la terrificante operazione piombo fuso, ma già nel 2005 si parlava della costruzione del muro, case palestinesi distrutte, terreni confiscati, omicidi. ho un vago ricordo di ragazzi palestinesi uccisi da un blindato israeliano, mi aveva colpito molto, anche se non saprei ritrovare la notizia, ma comunque erano cose all’ordine del giorno. all’epoca c’era quella merda di sharon. il ministro degli affari esteri era un certo netanyahu.

lui era sorpreso. non sapeva che il resto del mondo fosse a conoscenza della situazione dei palestinesi, dell’occupazione e della violenza di israele. io, forse fin troppo sicuro di me, gli assicurai che lo sapevamo tutti – sì, parlavo a nome dell’intero occidente in quel momento – e che quindi poteva stare tranquillo.

non era così. sono passati 20 anni, c’è un genocidio in corso, l’occupazione è più feroce che mai, la disumanizzazione dei palestinesi è ai massimi livelli, la disinformazione pure, i telegiornali ne parlano meno del 2005 e quando lo fanno minimizzano, nonostante la situazione sia di gran lunga peggiore, e il fatto che tutti noi sappiamo, chi più chi meno, non ha fermato lo sterminio e l’occupazione.

mi sono chiesto che fine potrebbe aver fatto quel ragazzo di cui, non c’è niente da fare, non ricordo il nome. vorrei ricordarlo, ma non mi viene proprio. sarà tornato a gaza? era davvero di gaza? sarà morto ucciso dagli israeliani? non ne ho idea.

ma ricordo che alle mie rassicurazioni sul fatto che in italia si parlava da anni dell’occupazione israeliana della palestina, della violenza, dell’oppressione, lui non era molto convinto. potrei inventarmi una frase che ha detto, ma la verità è che non me la ricordo. ricordo però la faccia, e la faccia diceva: non lo so se ti credo… se è vero che sapete tutto questo allora perché lasciate che accada?

questa domanda, che è una mia interpretazione della sua faccia, suona ancora più potente oggi, nel 2025. inutile snocciolare i soliti numeri su morti, feriti, amputati, donne, bambini, case distrutte, violenze dei coloni, prigionieri brutalizzati e via dicendo. sono cose che sappiamo, sono cose che sapete. ma cambia qualcosa?

forse sì. su instagram ho visto spesso, dal 7 ottobre del 2023, post di giovani palestinesi che chiedevano soldi ma che chiedevano anche che si parlasse il più possibile di quello che stava succedendo. è stato fatto, quanto è servito non lo so. però è quello che implicitamente mi chiedeva anche l’amico palestinese incontrato nel 2005. di parlarne.

non so cosa provano i palestinesi, posso solo provare a mettermi nei loro panni, con tutti i limiti del caso.

vivere sotto occupazione e sotto le bombe nell’indifferenza del resto del mondo credo sia peggio di sapere che, dall’altra parte del mediterraneo, c’è qualcuno che pensa a te e che sta parlando di te. cambia qualcosa? boh. ferma le bombe? no.

però, assieme a inviare dei soldi, è una delle pochissime cose che possiamo fare. molti si sono chiesti in questi anni: ok, ma alla fine cosa possiamo fare? non lo so, forse va bene tutto. c’è chi fa il boicottaggio, chi manifesta, chi manda soldi ad associazioni e chi a singole famiglie, chi ne parla a tutti quelli che incontra e ogni singolo giorno sui social. io stesso devo apparire come un fissato agli occhi delle persone che conosco, perché da un argomento qualsiasi – botanica, meccanica quantistica, cinema muto, cricket – finisco velocemente per parlare dei crimini di israele.

immagino che se incontrassi ora quel ragazzo, che se è vivo ora avrebbe 40 anni, mi direbbe che parlarne – visto come sono andati i vent’anni successivi al nostro incontro – non è più sufficiente, e allo stesso tempo è più necessario che mai.

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